Quindici anni. Tanto ci ha messo l’esperienza concentrazionaria più disumana del nostro paese a scuotere le coscienze di qualche politico ed a guadagnarsi il disonore delle prime pagine dei giornali. Tanto che i Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie) potrebbero anche essere giunti al capolinea, per un tardivo sussulto antirazzista e soprattutto perché sono finiti anche i soldi per gestire queste prigioni per stranieri che non hanno commesso alcun reato. Del resto il fallimento totale dell’esperimento è sotto gli occhi di qualunque osservatore anche imparziale: solo il 40% delle persone espulse lascia effettivamente il paese. Nel 2012 (ultimo rilevamento effettuato) sono state “trattenute” 7.700 persone nei Cie di tutta Italia e ne sono state rimpatriate meno della metà, un numero insignificante anche se confrontato con il dato degli immigrati senza documenti presenti sul territorio nazionale: 326mila secondo l’Ismu, un numero comunque limitato che dice anche quanto sia assurdo segregarne poco più del 2% per combattere la cosiddetta “clandestinità”.

Siccome sono sempre del presidente Giorgio Napolitano gli appelli più accorati contro la disumanità del sistema carcerario italiano, è bene fare un po’ di storia anche sulle prigioni più disumane e dimenticate, tranne che dalle associazioni umanitarie e dagli organismi internazionali (Amnesty International) che da subito denunciarono l’anomalia giuridica di questo tipo di trattenimento e le gravi violazioni dei diritti umani.

I Cie furono istituiti nel 1998 con il decreto legge 268/98 più tristemente noto come legge Turco-Napolitano (l’attuale presidente della Repubblica era ministro dell’Interno di un governo di centrosinistra). Sono strutture dove attualmente vengono “trattenuti” fino a sei mesi gli stranieri destinatari di un provvedimento di allontanamento dallo stato; inizialmente potevano essere rinchiusi nei centri per un massimo di due mesi (60 giorni), ma in seguito, nella prima metà del 2009, il governo Berlusconi – con ministro degli Interni Roberto Maroni – prolungò il trattenimento fino a un massimo di sei mesi. Da quel momento, pur non configurandosi come misura detentiva finalizzata all’espiazione di una pena, si è reso evidente che quel tipo trattenimento incide sulla libertà personale (tutelata dall’articolo 13 della Costituzione).

Nel corso negli anni, come documentato da diverse inchieste, tra cui quella di Medici Senza Frontiere, nei Cie sono state imprigionate diverse categorie di persone, impossibili da incontrare perché di fatto sequestrate dallo stato (sono le uniche prigioni dove non sono ammessi giornalisti): cittadini anche comunitari, richiedenti asilo, stranieri con mogli e figli che hanno vissuto in Italia molti anni (50% dei reclusi), stranieri nati in Italia, stranieri con il permesso di soggiorno scaduto e stranieri provenienti dal carcere (45% dei reclusi secondo i dati forniti dalle prefetture).

I singoli centri, utilizzati secondo una logica emergenziale, sono diversi uno dall’altro e gestiti in maniera disomogenea – per usare un eufemismo. Attualmente sulla carta ce ne sono tredici per un totale di 1.901 posti disponibili (Bari, Bologna, Brindisi, Caltanisetta, Lamezia Terme, Crotone, Gorizia, Milano, Modena, Roma, Torino e Trapani Milo e Trapani Vulpitta). Alcuni però in questo momento sono chiusi per ristrutturazione (Trapani Vulpitta, Crotone, Bologna, Brindisi e Gorizia), o perché sono stati danneggiati in seguito alle proteste oppure perché ritenuti del tutto inadeguati ad ospitare decentemente degli esseri umani. Quelli ancora funzionanti, invece, lavorano a capienza ridotta, sempre per interventi di manutenzione non più rinviabili. La maggior parte dei Cie sono gestiti dalla Croce Rossa, altri dalla Confraternita delle Misericordie, altri ancora da cooperative che si sono aggiudicate l’appalto con offerte sempre più al ribasso. Le rivolte, le denunce di abusi di matrice razzista e i casi di autolesionismo sono da sempre all’ordine del giorno, tanto che ormai anche un sindacato di polizia ha osato definirli “ambigui e pericolosi lager per immigrati e poliziotti”.