«Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Il Campionissimo sarebbe stato il più grande lo stesso, con un’altra maglia addosso. Ma il suo mito sarebbe rimasto in bianco-e-nero, senza quella pennellata sui colori della Bianchi che Ferretti, cronista per caso, volle insinuare tra la secca descrizione di quel puntino sperso nelle Alpi tra Cuneo e Pinerolo e la specificazione che proprio di Coppi si trattasse. Dietro, a una manciata di minuti, sbuffava Bartali, «gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo» come scrisse un altro testimone di quell’epopea, Dino Buzzati. Bartali imbufalito più contro l’età che lo spingeva indietro, che col rivale che si involava a rubargli lo scettro (e i riflettori). Poi, disperso, il resto del gruppo.
Se Coppi fu il più grande, Merckx fu il più forte. Non si sa chi per primo tra i suiveurs ci abbia pensato. Ma da allora tutti ci aggrappiamo a questo stratagemma, nell’invidia dei cronisti del pallone, ancora costretti a indugiare davanti al bivio tra Maradona e Pelè. Merckx fu il più forte, quindi, ma avrebbe vinto di sicuro meno se non avesse avuto un manipolo di scherani, scelti tra i migliori in gruppo, a tenergli bordone prima con la livrea bianca e rossa della Faema (macchine per caffè), e poi con quella nero-arancio della Molteni (insaccati Arcore). E ancora Rik Van Looy, senza la sua guardia rossa come le maglie della Flandria-Velda prima, e della Solo-Superia successivamente, non avrebbe anticipato di trent’anni la rivoluzione di Mario Cipollini: il «treno» di gregari consacrato a tirare le volate al re dei velocisti.
La storia di queste e di tutte le altre maglie del ciclismo ce la racconta ora Chris Sidwells nel suo Le maglie leggendarie del ciclismo Le storie dei campioni e delle squadre che le hanno indossate (Ediciclo editore, pp. 224, euro 30,00). È una storia di coriandoli, di macchie, di briciole viste da lontano, come scrive Marco Pastonesi nella sua divertente e ispirata introduzione al lettore italiano. Un lettore italiano che si troverà un po’ spaesato dalla scarsa attenzione prestata dall’autore alle maglie dei nostri campioni più recenti. Come quella celebre, zebrata, indossata (e prima disegnata) dal Cipollini che tagliava a braccia alzate il traguardo della Milano-San Remo del 2002. O, ancora, quella gialla cucita addosso agli ossuti uomini della Mercatone Uno quando facevano da catapulta al volo di Marco Pantani – del Pirata è citata soltanto, quasi di sfuggita, la giovanile militanza nella Carrera, marchio che contribuì alla rivoluzione cromatica del gruppo degli anni ottanta/novanta, con i suoi pantaloncini color jeans. Assenze ampiamente compensate, comunque, dalle continue professioni di ammirazione dell’autore per i classici italiani del gruppo, a partire proprio dal bianco-celeste con cui la Bianchi vestiva Coppi.
Ma la storia del rapporto tra il ciclismo e i suoi sponsor non è un idillio. Assomiglia più a un lungo ed estenuante braccio di ferro. Specialmente al Tour, dove a partire dagli anni trenta si corse per squadre nazionali: un po’ in omaggio al nazionalismo dilagante nell’Europa di allora, un po’ per sfuggire al tatticismo che l’organizzazione per squadre sponsorizzate stava introducendo nello sport. Il sistema continuò nel dopoguerra fino a tutti gli anni sessanta, e c’è chi l’ha riproposto (purtroppo inascoltato) come via per sfuggire alla crisi post-Armstrong. Ma il ciclismo, in generale, ha abbracciato tardi il cosmopolitismo. Al Giro d’Italia, per dire, il primo straniero a imporsi fu lo svizzero Koblet dopo cinquant’anni. Bottecchia ci impiegò meno a espugnare il Tour (e già qualche belga aveva provveduto), ma lui era Botescià, e in Italia per la verità raccolse poco, stretto tra la tirannia di Girardengo e quella, che si dice gli fu fatale, del regime. È che solo raggiungerla, la Francia, era dura. Figuriamoci primeggiare.
Se adesso gli sponsor dilagano e dettano l’agenda cromatica del gruppo – in alcuni casi fino a rendere impercettibile i segnali distintivi, ad esempio, dei campioni nazionali –, alcune maglie mantengono intatti i propri tratti fin dai tempi pionieristici. È il caso di quella iridata del campione del mondo, che il picaresco slovacco Sagan veste ormai da tre anni consecutivi (non riuscì neanche a Merckx), e che rimane immutabilmente ispirata ai cerchi di Olimpia sin da quando Alfredo Binda la sfoggiò per la prima volta: era il 1927, e in Germania il podio fu tutto italiano, completato da Girardengo e Piemontesi.
Dal 1919 invece Henri Desgrange premiava il primato del Tour con la maglia gialla. Salvo bei gesti, come quello di Merckx che la rifiutò in onore a Ocaña franato rovinosamente giù dal Col d’Aspet mentre indossava il simbolo del primato. Risvegliatosi dal coma dopo una settimana, Luis regalò a Eddy un canarino giallo. O salvo gesti non tanto belli, come quello di Bartali che impose la sua legge e fece ritirare la squadra italiana da un Tour dominato da Magni. Per via delle minacce ricevute, disse Gino. Perché non lo stava vincendo lui, ha sempre pensato a mezza bocca Fiorenzo. Minacce in voga anche prima che il maillot jaune sancisse il primato alla Grande Boucle, se è vero che Garrigou dovette correre in incognito nel 1911 per sfuggire all’ira dei tifosi normanni, sotto accusa com’era di avere avvelenato il loro idolo Duboc.
Più recente l’introduzione della maglia rosa, che Armando Cougnet appiccicò nel ’31 sulle spalle di Camusso. Neppure se fosse stata introdotta l’anno precedente Binda l’avrebbe potuta indossare: aveva preferito intascare 22.000 lire per non partecipare, tanto gli organizzatori pensavano che il suo strapotere rendesse la corsa poco interessante. Si rifece nel ’33.
Ma non di solo sport ci parla il libro di Sidwells. Tra le sue pagine, attraverso bellissime foto d’epoca, si dipana una vera e propria storia del costume. Nel passaggio, prima di tutto, dalle maglie di lana alle fibre ultratecnologiche (oggi attraverso il materiale indossato dai ciclisti si cerca di limare il secondo). Bobet rifiutò sdegnato la prima maglia gialla sintetica: non ci respirava. Ma erano tempi in cui la bistecca, per le turbe di imbianchini e garzoni di bottega che popolavano il gruppo, era scopo da conseguire e al tempo stesso mezzo per alimentare lo sforzo fisico necessario a spianare le montagne (ancora non ci infestavano maltodestrine e oreillettes – gli auricolari che in corsa trasferiscono ai corridori le istruzioni dell’ammiraglia).
E ci vorrebbe Giovanni Arrighi per svelare l’intima trama della storia del passaggio nelle sponsorizzazioni, dalle marche di biciclette e di pneumatici a quelle di cucine componibili, ai grandi gruppi assicurativi e di telecomunicazioni; dall’epoca dei pionieri sù sù fino a Chris Froome. E per fotografare, attraverso la storia del ciclismo, il dispiegarsi di nuove gerarchie nel sistema «mondo capitalistico»: una volta un salumiere brianzolo rendeva possibili le vittorie di Merckx, oggi i campioni corrono in squadre finanziate dai fondi d’investimento del Kazakistan o del Bahrein.
Ma il ciclismo è sport che induce al conservatorismo, tant’è che Vasco Pratolini narrava ai suoi lettori l’epopea di Coppi e Bartali coi toni nostalgici del ricordo della sua infanzia, quando Gerbi … le sue sì che erano imprese. E quindi il suiveur sul momento si lamenta, ma poi non vede l’ora di ricominciare a raccontare di tutte le maglie leggendarie che continuano a sfilargli davanti.