Attratti dal miraggio di una mondanità amplificata dai rotocalchi, nei primi anni ’60, a Roma affluivano durante il decennio giovanotti senza arte né parte, poca voglia di lavorare e la scelta di vivere alla giornata liberi da dipendenze. I più colti possedevano qualche anno di scuola superiore, sufficiente per improvvisarsi, fra le varie opportunità, guide turistiche a San Pietro dove i torpedoni scaricavano pellegrini a tutte le ore. “Turismo” era una parola ancora recente, cominciata a circolare dal dopoguerra. Provenienti dalla provincia ma anche da regioni lontane, i novelli ciceroni facevano il paio con gli aspiranti paparazzi che muniti di macchinette per istantanee si aggiravano nei dintorni della già mitizzata via Veneto. Mestieri girovaghi che s’imparavano in strada rapidamente, senza maestri, e per i quali l’intraprendenza era la sola attitudine richiesta. A Roma restavano una stagione, un anno, oppure tutta la vita. La zona di Termini si rivelava strategica per trovarvi un posto-letto e da lì spostarsi con facilità in qualsiasi luogo reso celebre dallo stesso turismo. Piazza Vittorio era il centro di quella zona e i suoi palazzi umbertini offrivano camere da condividere, a poche lire, in soffitte mal arieggiate. Vita grama per quei “servitori di piazza” (così definiti in passato coloro che svolgevano per il pubblico lavori all’aperto) con vestito scuro e cravatta annodata su colletti consunti e rivoltati: la loro tenuta, buona per ogni occasione. Con le guide turistiche, talvolta di sesso femminile e straniere, ci si poteva imbattere in situazioni divertenti o inaspettate.

Da piazza dei Cinquecento, oltre che da Castro Pretorio, capolinea, partivano gli autopullman che attraverso la consolare Tiburtina conducevano a Tivoli, nota per le cascate d’acqua e le antiche ville. In quella cittadina decidemmo di trascorrere qualche ora fra i giardini di Villa d’Este. A bordo si viaggiava comodi. Una ventina di persone, su almeno il doppio di posti a sedere. Una signora svedese di nome Ingrid, incaricata a fare da guida, accompagnava la comitiva. Non sapendo dire una parola in italiano si esprimeva in dialetto napoletano, così verace, e pure sguaiato, da lasciare per lo stupore a bocca aperta. Tre anni prima – raccontava di sé – arrivata in Italia per turismo, aveva sposato un napoletano e trovato lavoro presso un’agenzia di viaggi nel ruolo di guida. Lasciata la costiera sorrentina, da meno di un mese, si era spostata su Roma e il circondario. Una coppia di suoi connazionali chiese ragguagli su Villa d’Este esprimendosi in un italiano fluido. Allora lei, lacunosa nella lingua di Dante, cercò di cavarsela inframmezzando il napoletano con lo svedese.