Mauro Cicarè è un tiratardi, disegna di notte le sue creature colorate, spaventosamente piene di energia ed eccentricissime, ed esce di solito in tarda mattinata a piedi per un caffè, una sosta al tabacchi per accaparrarsi una scatola di toscano Classico, poi si rintana subito dopo nel suo studiolo rabbuiato, molto raccolto e ingorgato di albi sugli scaffali. La vecchia lampada è fissata sulla scrivania come quelle che usano per gli interrogatori nelle questure, le matite sono tutte pronte all’uso, e mentre lui lavora, aspira il suo mezzo toscano, gli sbuffi di fumo conquistano lo spazio. E’ qui che sono nati tutti i suoi personaggi da vecchio poliziesco americano, le atmosfere anni ’40 alla Bogart, coi mascelluti energumeni nati dai ricordi di celluloide di mille film, venuti su da un condensato di letture che sicuramente hanno avuto a che fare anche con i gialli Hammett, Chandler, Spillane.

I suoi personaggi sono dei lottatori ingenui ma coriacei, ingaggiano sfide da supereroi involontari, sono disegnati ma umanissimi, come l’ultimo Angelo nero, una sorta di Uomo ragno africano, metà Malcom X e metà Superman, plastico e non meno umano di quello di Wenders, che vola sopra i cieli d’Italia, a Lampedusa dove i migranti muoiono, ma anche a caccia di sfruttatori, feroci caporali nelle terre amare del Meridione; o come l’indimenticabile Eddie mano pesante, che sembra uscito da Cinquanta bigliettoni di Hemingway, meglio da Mai venga il mattino di Nelson Algreen, un personaggio metropolitano un po’ pulp, inguaribile sciupafemmine e pugile indomabile nato col mito della lotta.

Un altro soggetto che ama particolarmente sono le automobili, forse per il fatto che il suo autore si sposta da sempre in treno e non ha mai preso la patente di guida. Sono sfreccianti, sgargianti, coloratissime. Le macchine futuristiche eppure dal design vintage di Cicarè ci appaiono fascinose come quelle cantate da Lucio Dalla, il loro “motore è feroce/mentre taglia ruggendo”. Sono una citazione del passato, a tinte forti rosso fuoco, e sgommano furiosamente come quelle dei cartoni animati.

Ironico e parossistico, questo disegnatore marchigiano quando usa i colori ha un suo tratto originale di eccessiva materica furia, come se non riuscisse a contenere il troppo pieno caotico di una realtà sempre più artefatta, spettacolare, e l’aspetto formale, quello creativo del disegno, i suoi equilibrismi e azzardi, prevale su tutto quanto il resto, come a dirci che il gioco, la messinscena, vale persino di più dei contenuti, che siano sociali o culturali. E per questo, forse, è anche uno dei più letterari in senso classico. Senza colore, disegnando solo a china, fa cose più stilizzate, come i bozzetti sul mondo del lavoro Articolo 1, pensati per le riviste del sindacato, o i calciatori al carboncino de “La partita”, molto amati da Ascanio Celestini che nella prefazione ne coglie gli aspetti più marcatamente politici: “…Dietro al ricciolo teso, nella controra di questo calcio senza spettacolo riconsegna il sudore e la fatica al silenzio che meritano. (…) Lo stadio torna a essere solo un campo da calcio come quello delle partitelle dei ragazzini dove non ci stanno spettatori..”

Cicarè abita al primo piano di uno stabile delle case popolari a Civitanova Marche, grigio e un po’ spettrale, in un quartiere una volta abitato da operai, popolare e di sinistra, a un tiro di schioppo dal centro. E’ qui che in genere lo incontro. Un luogo che forse ha ispirato un altro suo filone narrativo, “l’Enigma del condominio”, quello più esistenziale ed intimistico, dove cura di più la vena di pittore tout court, un artista che ricorda le periferie desolate di Sironi, come queste, ma ancor di più il Buzzati fantastico e nero.

Appena varcata la soglia dell’appartamento, chiuso il portone, mi viene un po’ incontro il suo mondo. Le grandi tele appese alle pareti, la rossa Ferrari scintillante 8C del 1935, sembra proprio quella del grande Tazio Nuvolari, la sagoma è identica. I romanzi noir sulle scaffalature in legno, ma anche molta letteratura colta, i vhs con i più grandi incontri di boxe, compreso quello tra Cassius Clay e George Foreman, disputato a Kinshasa, nello Zaire, di cui abbiamo parlato tante volte, facendo la scherma con le mani, quasi a imitarne, impacciati come siamo, la potenza di quegli ultimi risolutivi, micidiali jab e uppercut, che fecero volare al tappeto Big George.

Sono venuto a trovarlo perché sta per tornare in libreria il personaggio che vent’anni fa lo ha fatto conoscere al pubblico italiano, Fuori di testa (Edizioni DI, 2013), che sembra ispirato da un altro boxeur leggendario, Primo Carnera, che ha la stessa mastodontica fisicità, forza e goffaggine insieme e da vendere, oltre a un che di bambinesco posseduto da tutti gli uomini giganti. Quando glielo faccio notare mi dice sorpreso che è vero, non ci aveva mai pensato ma ho ragione. Anzi, rilancia: “infatti il mio personaggio è famoso per il pugno, la castagna potente, ma lui è davvero buono come un bambino.” Il libro sarà uno dei classici della rivista “Il grifo” che Vincenzo Mollica ha voluto ripubblicare in questi giorni. Proprio lui che aveva fatto incontrare nella sua casa romana Cicarè con lo sceneggiatore Franco Porcarelli, l’inventore del bestione tutto muscoli e niente cervello, che allora cercava un disegnatore capace di dargli la vita.

Il soggettista ricorda così quell’incontro: “Vincenzo Mollica voleva un fumetto nuovo per Il Grifo, e mi mise in contatto con Mauro Cicarè. Era una scommessa (soprattutto per quel che mi riguardava), e lo ringrazio ancora. Non posso giudicare il mio apporto “letterario” a questa impresa, ma gli sono riconoscente per avermi fatto collaborare con una persona e un artista di prim’ordine. Cicarè dota le sue immagini d’una forza spaventosa. Anche il colore, veramente, lo usa come un pugno nello stomaco, e lo dico in senso più che positivo: come uno shock estetico.”

Mentre Cicarè accende uno dei suoi sigari con gusto, meticolosità, continuo a curiosare tra i libri. Ci sono anche quelli illustrati da lui: “Gli scrittori inutili” di Ermanno Cavazzoni, “Spiriti” di Benni, “Spinoza” di Paolo Nori, tra gli altri, anche se il suo rapporto con al letteratura, coi classici, è avvenuta grazie Walter Pedulla che gli ha chiesto di disegnare alcuni opere letterarie per la rivista “Il caffè”, così sono nati i Classici illustrati: l’Orlando furioso, l’Eneide, l’Iliade, Don Chisciotte, persino il Partigiano Johnny di Fenoglio.

Fuori di testa ha 35 anni, questo è scritto nella sua carta d’identità in uno dei tre episodi del libro. Gli altri segni particolari sono abbastanza pazzeschi: Multischizofrenico pericoloso. Decerebrato cronico. Processi mentali esteriori. Muto. Pluriventriloquo. Internato all’età di 5 anni. Condannato a 95 anni per vari reati. I suoi nemici conclamati, coi quali si scontrerà nei tre episodi che compongono la compilation Il giustiziere monco e il Flagello dell’Umanità, il più avvincente e spettacolare, con le tavole più ricche, colorate. Nei tre capitoli si comincia da una gangster story, dove oltre all’eroe di riferimento ci sono molti altri personaggi bizzarri (Ma-scin-gan Nano, l’Esibizionista timido, e il roccioso Maldoror, pluriergastolano condannato per genocidio che vien sicuramente da Lautréamont), a un’avventura magica, fino al western parodico con Stroncita immorales, la vergine di Norimbergamo Alta, che chiude la bizzarra trilogia.

E’ un antieroe, un supereroe inimmaginabile” racconta il disegnatore marchigiano, che ancora si diverte a guardare quelle tavole dei primi anni ‘90. “Volevo fare qualcosa che fosse un po’ un classico, un cartoon-comics alla Will Eisner, con precisi riferimenti al linguaggio fumettistico”. Un antieroe esagerato, come molte cose che disegna, gli faccio notare, dove ogni cosa è eccessiva.

Mi fa capire che tutto questo è una molla espressiva, gli serve per far vivere il suo personaggio: “deve essere per natura esagerato, ma forse allora, vent’anni fa, ero anche più giovane, con più energie e meno esperienza” si difende. E con in testa il mito americano, con tutto il suo immaginario potente che certo deve aver colonizzato l’inconscio artistico di un ragazzo nato a metà degli anni’50 in una terra appartata, coi paesaggi naturali e i piccoli borghi antichi come le Marche. “Ho sempre subito il fascino dell’America” ammette, “il cinema, certo, la letteratura, Sherwood Anderson, le poesie di Walt Whitman, Edgard Lee Masters, e naturalmente la musica, Woody Guthrie, voglio dire, il mito della Frontiera. E poi New York” dice che gli brillano gli occhi mentre continua a discorrere. Ripete “New York”, poi dice “una città simbolo, mitologica, un continuo set cinematografico, davvero lo scenario ideale per raccontare una storia. Ma forse è anche il sogno di chi è nato in provincia” ammette alla fine sconsolato.

Fuori di testa è anche un lontano parente di “Rank Xerox” e del nasuto “Zanardi”, “pure se non c’è quella cattiveria”, come avverte Cicarè, quasi prendendo le distanze, “quel cinismo, quell’atmosfera di fumetti legati a un’epoca politica”, nasce dalla stessa temperie, la Bologna del ’77 e del Dams, quella di Radio Alice e degli indiani metropolitani, e lui si è formato nelle stesse riviste d’avanguardia di allora, “Frigidaire”, “Frizzer” e “Tempi supplementari”, il nostro vero underground, dove pubblicavano Filippo Scozzari, Liberatore, Tamburini e Andrea Pazienza. “Anche se Fuori di testa nasce dopo” continua a dirmi filologico, negli ambienti del Grifo dove c’erano Pratt, Manara, Federico Fellini.

Gli anni in cui Vincenzo Mollica s’innamorò del suo lavoro, al punto di scriverne con questa singolare ammirazione: “mi piacciono i suoi colori, i suoi scenari, le sue macchine, le facce che materializza, le donne che il destino fa incrociare nelle sue strisce. Mi piacciono le sue storie masticate dalla vita, i suoi sogni fumettistici che sono ponti che portano alla fonte dei sentimenti. Mi piace anche pensare che Cicarè sia un mago o meglio un illusionista che sta inventando, con pazienza certosina, un mondo parallelo al nostro, un universo in cui ci potremo infilare abbandonando questa contemporaneità che sempre più spesso fa rima con volgarità.”