A Benedetto Vecchi piaceva moltissimo il mare. Non rimaneva mai in superficie ma preferiva sparire sotto il mondo visibile, tuffarsi nelle profondità per conquistare altri mondi nascosti, stregato da ciò che non è di immediata conoscenza. Una metafora potente del suo muoversi tra le maglie della società contemporanea. Al mare, però, non andava mai leggero. Quando riaffiorava dall’acqua, ripescava certamente i suoi libri dalla tasca del fedele zainetto. Erano tomi di inusitata pesantezza fisica (centinaia di pagine), ma ambrosia divina da dare in pasto alla sua curiosità inesauribile. A volte, quelle tematiche spinose che tanto aveva a cuore – dal postumano all’intelligenza artificiale passata al vaglio del materialismo marxista, fino alle piattaforme del capitalismo digitale – erano fonte di scambi di battute insieme alle compagne e compagni di stanza perché Benedetto aveva il dono – assai raro – dell’autoironia. Ogni giorno sul suo tavolo si accumulavano libri densissimi, politicissimi, che molti di noi avrebbero stentato solo ad aprire. Per lui, invece, erano miele purissimo. Reti succose dove impigliare i fili del ragionamento, «canovacci» utili per strofinare le lampade di Aladino negli angoli oscuri della realtà.
Nella sezione cultura – dove ha lavorato con sconfinata generosità per decenni e che per lui era anche un luogo di sovversione pulsante e di pensiero liberissimo – ha aperto varchi inaspettati, rendendo «liquida» l’architettura delle idee. E in quella liquidità democratica si immergeva anche la sua passione per il noir, unica concessione «fuori registro», insieme alla fantascienza di Ursula LeGuin. Timido a suo modo, eppure fermo nelle decisioni, portentoso ascoltatore dei disastri privati altrui e delle altrui irrazionali costruzioni esistenziali, è stato prima che un compagno di strada e di lavoro, un amico sincero. Che non si sottraeva mai, infaticabile negli affetti come nella sua dedizione a il manifesto, l’impresa collettiva nella quale ha creduto (e che ha contribuito, con tutte le sue forze, a salvare dal naufragio), con fede incrollabile, fino all’ultimo.

Arianna Di Genova

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La sua passione per il conoscere gli ha fatto conquistare via via pezzi di mondo, il lessico per nominarli, cassette degli attrezzi sempre più nutrite di chiavi per aprire testi anche impervi, ai quali ha guardato con una originalità a volte spiazzante, derivata da un punto di vista a sua volta molto orientato: politicamente orientato, come diversamente non avrebbe potuto darsi per un uomo che ha puntato sul linguaggio, rendendo questo requisito trascendentale permeabile alla contingenza storica della sua generazione: un tempo, anche, di rivolte.
Se è vero, e lo è, che i confini del nostro linguaggio determinano i confini del nostro mondo, raramente si è vista una politica espansionista così appassionata nei confronti di territori del sapere da annettere al proprio patrimonio esistenziale: osservare Benedetto nella sua parabola conoscitiva è stato uno stupefacente esempio di vita activa, da serbare nelle nostre coscienze, per quanto ormai troppo poco critiche, prima ancora che nei nostri ricordi. Era dotato, fra l’altro di un sentimento della gratitudine per nulla ovvio, per nulla diffuso, che si traduceva in lui nella generosità della sua condivisione dei passaggi più difficili degli amici, verso i quali coltivava una, a volte commossa, intensa partecipazione.
Sono molte le circostanze di cui gli siamo debitori, e molti – peraltro – i conflitti consumati: anche di questi bisogna riconoscergli la derivazione quasi pulsionale, dunque più coinvolgente, quella che implica quella spesa di sé cui non tutti sono disposti, ma Benedetto sì.

Francesca Borrelli

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Aveva una intelligenza complessa, Benedetto. Una di quelle che ti espone al groviglio del mondo, da dentro e mai da spettatore. Operaio del pensiero, non conosceva fatica quando si trattava letteralmente di adoperarsi, per queste pagine e per il giornale. Aveva un attaccamento appassionato che non è mutato di una virgola al sopraggiungere della malattia, tanto da far pensare, osservandolo e leggendolo, a quegli amori incrollabili che sanno trovare nutrimento nonostante il tempo che resta si avverta sfuggente. Benedetto non si è mai risparmiato. Ha sempre preferito la presenza alla ignavia ormai diffusa in questo presente di miserabilità. È stato un amico e un compagno su cui contare, insostituibile come chi non teme di esserci e sceglie di restare anche quando le cose si fanno difficili. Ma lui rispondeva offrendo il petto, di poche parole, con una calma proverbiale. Sapeva quel che faceva. Era un intellettuale militante. E aveva un’altra qualità rara: era buono. Ha sostenuto generazioni di collaboratori (anche io devo ringraziarlo, senza di lui non avrei mai cominciato a scrivere qui), sollecitando dibattiti generosi. Perché amava il confronto, la parola dell’altro e dell’altra. Le cose scambiate in questi anni rimangono e non si possono invece raccontare. Si tengono tra le cose più care, giorno per giorno. Insieme ai suoi occhi grandi e autunnali, che si illuminavano di ardore per ciò che gli andava bene oppure no; il modo suo che aveva di stare accanto alle cose anche piccole è forse la perdita incolmabile. Ma ce la teniamo stretta, anche questa ultima cosa. Per il bene che gli abbiamo portato. Ciao Ben, tutto il mio cuore grato per te, per Laura e per Marianna.

Alessandra Pigliaru

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Alcuni gesti erano cambiati, alcune espressioni scontavano il passaggio del tempo, avvenuto per entrambi, ma lo sguardo di Benedetto non era diverso, quel suo modo di non prendersi troppo sul serio e di giocare simpaticamente con l’interlocutore. Ti guardava strizzando leggermente gli occhi, un lampo di ironia pronto a scoccare. Ci siamo incontrati al manifesto nel 1992 ma i ricordi che mi scorrono davanti, magari un po’ confusi dall’emozione, lo vedono altrove, per strada o in luoghi dove il suo paziente lavoro di studio si intrecciava con la sua passione per la politica – anche se vorrei in realtà parlare di rivolta – e la sua inarrestabile curiosità. Lo rivedo così durante una manifestazione a via Cavour o al vecchio Leoncavallo accanto a Primo Moroni a farsi raccontare storie di balere e di “ligera”. Ma anche durante un indimenticabile weekend – te lo ricordi Lia? C’eri anche tu – ospiti dei neodestristi che parlavano di comunità e radici qualche decennio in anticipo su Salvini. Una trasferta che una volta usciti i pezzi sul giornale ci valse l’appellativo di “rautiani del manifesto”. Ti ho sempre detto che sarei voluto venire a lavorare al manifesto solo per poter ridere e litigare con te tutti i giorni. Non mi hai dato il tempo.

Guido Caldiron