In una lirica del 1986 intitolata Scrivere il curriculum, Wislawa Szymborska deplorava il fatto che quello (pseudo) genere letterario che è il cv sottoponesse l’incommensurabilità dell’esistenza a una selezione eminentemente pratica e pertanto mortificante: «Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati (…) / Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni». Né meno sospetta doveva sembrarle la forma (auto)biografica, dal momento che in un’altra poesia, Il 16 maggio 1973, lamentava di non serbare alcun ricordo di quel giorno in particolare, malgrado l’avesse incontestabilmente vissuto. «Una delle tante date / che non mi dicono più nulla. / Dove sono andata quel giorno, / che cosa ho fatto – non lo so».

Di fronte all’impossibilità manifesta di resuscitare sia pure un secondo di quelle giornate svanite, simili ormai a semplici «puntini tra parentesi», le sarà parsa tanto più risibile l’ambizione nutrita dai suoi aspiranti biografi di riuscire a trarre da quelle eclissi parziali della memoria una narrazione cronologica ordinata e veritiera. Eppure non erano tanto considerazioni di natura razionale a indurre l’autrice a opporre una resistenza garbata quanto strenua a chi, con crescente insistenza, la supplicava di enumerare fatti, date e volti di una vita rigorosamente appartata. Dietro il suo riserbo si intravedeva il timore che allo svelamento esteriore di sé potesse corrispondere un inaridirsi del proprio Io, impedendole per sempre di esprimersi nell’unica tonalità a lei davvero cara: quella lirica.

Fieramente contraria a un’interpretazione «biografica» dei suoi componimenti, Szymborska si guardava bene dall’elargire ai lettori qualunque dettaglio sul proprio passato che potesse involontariamente suffragarla. Alla luce di questa innata ritrosia è dunque tanto più significativo l’aiuto fornito dalla poetessa alle giornaliste Anna Bikont e Joanna Szczesna per delineare (sia pur con ampio uso dello sfumato) quei settantatré anni di vita precedente al Nobel che la dozzina scarsa di interviste rilasciate fin lì non bastavano certo a illuminare. Forse a smuovere Wislawa Szymborska fu non solo l’acribia profusa dalla due autrici nel ricostruire il suo albero genealogico, ma anche la tenacia prossima alla disperazione con cui avevano passato al vaglio le recensioni note come Letture facoltative a caccia di predilezioni, tic, idiosincrasie e rimpianti mai esternati altrove dall’autrice.

Il caotico pot-pourri così assemblato («Wislawa Szymborska ammirava la pittura di Vermeer, non sopportava il gioco del Monopoli, non amava la confusione, non disdegnava la visione dei film dell’orrore, scriveva in posizione semidistesa, era un’appassionata di indici, note, citazioni, rimandi, sommari e bibliografie, e di tanto in tanto andava all’Opera…») era stato via via corretto e chiosato da Wislawa Szymborska stessa, preoccupata per lo più di dichiararsi narratrice inattendibile («vi avverto: in assoluta buona fede posso raccontare cose che non sono mai esistite», così avrebbe accolto a casa sua Bikont e Szczesna nel febbraio 1997).

Stante la nota tendenza dell’autrice polacca a schernirsi e a ironizzare sulla rilevanza della propria opera, non sorprende certo che la prima versione della biografia uscita a Varsavia nel 1997 prediligesse con programmatica frivolezza quelle «fonti non proprio cristalline» a cui Szymborska sosteneva di attingere, ossia «sbagli esistenziali, dubbi, sciocchezze varie, un sapere accumulato in modo caotico, impossibile da ordinare». Assecondando incondizionatamente la poetessa, le due giornaliste avevano dedicato ampio spazio – fin troppo, a giudizio di qualche critico – a quelle occupazioni ostentatamente futili come la stesura di limerick e il collezionismo di paccottiglia kitsch con le quali Szymborska tentava di distanziarsi dal ruolo di vate nazionale che, all’indomani dell’assegnazione del premio Nobel, si era abbattuto fatalmente sulle sue spalle. Tutto ciò risulta alquanto ridimensionato nell’edizione rivista e ampliata, Cianfrusaglie del passato La vita di Wislawa Szymborska, ora tradotta e curata per Adelphi da Andrea Ceccherelli (pp. 455,euro 28,00).

Preservando intatta la leggerezza stilistica che aveva caratterizzato la prima stesura, le autrici si impegnano qui a ricostruire in modo più circostanziato la posizione occupata da Szymborska nel mondo culturale polacco nell’arco di sessant’anni, mettendo a confronto tra di loro i ricordi di innumerevoli compagni di strada, primi tra tutti i poeti Adam Zagajewski, Ewa Lipska e Ryszard Krynicki, ma anche quelli di coloro che, con dedizione e propensione alla sfida intellettuale, avevano adattato la sua lirica ad altri contesti linguistici e culturali (Stanislaw Baranczak, Karl Dedecius, Anders Bodegard, Pietro Marchesani). Non priva di interesse è anche la testimonianza di Michal Rusinek, il giovane studioso di letteratura che, a seguito di quell’autentico spartiacque rappresentato nell’esistenza della Szymborska dal Nobel, venne assunto come segretario al fine di operare una cernita tra gli innumerevoli impegni, inviti, richieste asfissianti, lusinghiere o assurde che, di colpo, si erano riversati su colei che egli chiamava, con ironia mista ad affetto, «il Capo».

Grazie a Rusinek apprendiamo dettagli che non rivoluzioneranno forse il giudizio critico sulla poetessa, ma che di certo faranno la gioia dei lettori di biografie, ad esempio il fatto che Szymborska dimostrava un attaccamento tipicamente socialista a oggetti di uso quotidiano innegabilmente brutti e vetusti, eppure non del tutto inservibili. Oppure che, odiando cucinare, apprezzava il cibo preconfezionato (minestrine liofilizzate che serviva persino agli ospiti a cena, ma anche, dopo la rapida conversione della Polonia al capitalismo, le alette di pollo dei fast-food).

Pochi tra i conoscenti stretti della poetessa sembrano essersi sottratti alle domande di Bikont e Szczesna: nella trama polifonica da loro intessuta risuonano infatti le voci delle compagne di scuola che, insieme a Wislawa, avevano frequentato l’istituto delle suore Orsoline a Cracovia nella seconda metà degli anni trenta e poi i corsi clandestini nella città occupata dai tedeschi. E, ancora, quelle dei letterati vicini di casa nel dopoguerra (quando Szymborska insieme al marito Adam Wlodek, si era trasferita nell’umido sottotetto della Casa degli Scrittori in via Krupnicza), nonché dei collaboratori della rivista «Zycie literackie», che l’aveva vista caporedattrice della sezione poetica dal 1953 al 1966. Forse l’unica assente, in quanto già deceduta all’epoca della prima stesura, è la sorella maggiore Nawoja, quell’«insuperabile modello di casalinga vecchio stampo» eternata nella poesia In lode di mia sorella, dove Wislawa Szymborska le invidiava la capacità di non scrivere poesie e il fatto che il suo caffè non si rovesciasse su manoscritti.

Tra i meriti delle due autrici risiede anche quello di affrontare con intelligenza la questione dell’adesione sincera della poetessa al Partito operaio unificato polacco, nonché le reazioni al componimento in morte di Stalin che le valse attacchi furibondi da parte dei cattolici nazionalisti negli anni Novanta (interessante il punto di vista di chi, come Tadeusz Nyczek, vi scorge la stessa struttura di capolavori successivi come Il gatto in un appartamento vuoto, ossia la medesima «disperazione dettata dall’assenza»). Notevoli anche le pagine sul rapporto con Czeslaw Milosz, «compagno di Nobel» verso il quale la poetessa scomparsa a Cracovia il 1 febbraio 2012 nutriva un senso di soggezione quasi panico, salvo poi motteggiarlo amabilmente, ricordandogli di averlo sorpreso nel 1945 in un ristorante, impegnato ad addentare un’assai poco lirica cotoletta di maiale.

Ma i capitoli più evocativi sono quelli in cui Bikont e Szczesna, in mancanza di testimoni oculari, si avventurano da sole nella preistoria szymborskiana, tra certificati dell’anagrafe e del catasto e polverose fotografie che ritraggono il futuro padre della poetessa a Zakopane. Qui, in questo villaggio sperduto sui monti Tatra, destinato da lì a breve a trasformarsi nel buen retiro degli intellettuali polacchi, Wincenty Szymborski amministrava dal 1904 la tenuta del conte Wladyslaw Zamojski, il quale in una lettera ascriverà a proprio merito quello di essersi indebitato fino alla punta dei capelli purché i boschi di Zakopane non finissero «in mani straniere», sottointendendo con quest’aggettivo quelle ebraiche di Jakub Goldfinger, proprietario della locale cartiera che avrebbe certamente «fatto abbattere tutti gli alberi».

E sarà proprio all’ombra degli abeti patriotticamente salvati dall’antisemita Zamojski che novant’anni più tardi Wislawa Szymborska, ospite della Casa degli Scrittori Astoria, apprenderà di avere vinto il Nobel per la letteratura. Quasi come se quel riconoscimento fosse in fondo anche un omaggio postumo al padre e alla lezione di stile e sobrietà che le aveva impartito fin da piccola, quando le regalava venti centesimi a ogni poesiola scritta. A patto però che fossero spassose, «niente confidenze femminili, niente lamenti».