Molto spesso a coloro che hanno intrapreso la coltivazione di orti urbani e periurbani viene ricordato che le città sono inquinate, che non sarebbe proprio quello il posto migliore per mettere a dimora ortaggi o frutta destinati all’alimentazione umana. E’ un’accusa infondata e facilmente da respingere al mittente. Cominciamo col rammentare di quanto le città, tutte le città, siano sempre state un misto di orti ed abitazioni e che storicamente – lo attesta la stessa etimologia delle vie – la toponomastica è ricca di «via agli orti» e simili, ovunque in Italia, e già questo basterebbe a ribattere alle accuse. Mi viene in mente che certo, strade, autostrade, il riscaldamento domestico e le attività industriali dovrebbero scoraggiare le coltivazioni in città. Però mi viene in mente molto altro.

C’E’ UN’ISOLA NEL PACIFICO, TUVALU, è stato un enigma impossibile da decifrare fino all’avvento dei satelliti. Tuvalu presenta una vegetazione lussureggiante eppure lo strato di humus presente è ridotto all’osso. Come fanno a vivere e in modo così ricco ed esteso le piante? Si è scoperta solo di recente una corrente proveniente dal deserto del Gobi, nell’interno della Cina, a migliaia di chilometri di distanza, un vento costante che apporta i nutrienti necessari sull’isola. Alla fine del secolo scorso il vulcano di Krakatoa esplose. Un boato che si sentì a migliaia di chilometri di distanza. Le polveri sollevate fecero tre volte il giro della terra. Questi due fatti per affermare che il pianeta è uno solo e che l’inquinamento, compresi i radionuclidi di Chernobyl e Fukushima, sono ovunque.

Le città, esattamente come qualunque, altro luogo sono contaminate. Non dovremmo coltivare da nessuna parte? Moriremmo di fame, semplicemente. Invece, nel corso delle ere geologiche questo pianeta ha conosciuto catastrofi immani, dall’impatto con corpi celesti di dimensioni abnormi alle tempeste solari, dalle eruzioni vulcaniche più tremende ad ogni altro tipo di produzione di polveri, emissione di gas e metalli pesanti dall’interno stesso della terra. Eppure, siamo qui. Umani, piante ed animali siamo qui.

E LA CHIAVE STA NELLE PIANTE. Dopo la catastrofe di Chernobyl, fusione di un nocciolo di un reattore nucleare, la peggiore ipotesi d’incidente atomico possibile, a distanza di anni, di decenni, la vita è ritornata e con vigore nell’area dove gli umani sono stati sfollati. Sono tornati gli animali selvatici, dai piccoli a quelli di grossa taglia, sono tornati i cervi, i caprioli, e con loro i predatori naturali, linci, orsi e lupi. Se sono tornati gli animali è perché, primo anello della catena alimentare, sono tornate le piante. Gli studi in merito riscontrano una presenza incredibile di biodiversità.

SE ALLO SCOPPIO DEL REATTORE LE FORESTE di pini avevano virato di colore, passando dal verde al rosso per poi morire, a distanza di alcuni decenni la vegetazione si è ripresa completamente, anzi, in assenza dell’uomo ha conquistato le città aprendo brecce nelle mura e nelle case, squarciando tetti ed asfalto. Tutto questo ha una ragione scientifica e rappresenta una speranza immensa. Questa speranza fondata si chiama con termine inglese Phytoremediation ovvero la capacità che hanno le piante, e la possiedono infinite specie di piante, di decontaminare l’ambiente nel quale vanno ad insediarsi. Subito dopo la tragedia di Chernobyl si erano condotti esperimenti di decontaminazione naturale con i girasoli. Non solo i girasoli possiedono questo potere di depurazione dei suoli.

Nella Terra dei fuochi, nel casertano che era terra di lavoro, una terra che possiede lo strato di humus tra i più profondi d’Italia, purtroppo convivono questa ricchezza fertile e i veleni sversati dalla camorra. L’Università di Napoli Federico II ha condotto a termine un esperimento di fitodepurazione su 25ettari di terra sequestrati alle mafie. Anzichè spendere i 25 milioni di euro per asportare il terreno e riacquistare daccapo il suolo necessario, si è impiantato un pioppeto spendendo solo un milione di euro. I pioppi hanno la capacità di decontaminare il suolo e ripulirlo dai metalli pesanti, in particolare, il cadmio.

NON SOLAMENTE I PIOPPI HANNO QUESTA CAPACITA’, si sono condotti esperimenti di phytoremediation con i mirtilli, con le brassicaceae, con il ricino, anche la semplice canna palustre è capace di ripulire le acque. Altre essenze come il tagetes minuta hanno lo stesso potere.

Se il pianeta ospita ancora la vita dopo sconquassi di ogni tipo è perché le piante, a partire dalle alghe azzurre, e sono queste ad aver dato il colore al cielo, si sono specializzate nel ripulire ed assorbire ed espellere ogni tipo di veleni.

Agli orticoltori urbani va riconosciuto invece il merito di portare la natura dentro la città, la conoscenza della phytoremediation consente loro di difendersi anche dall’inquinamento, adottare siepi alte, metodologie di coltivazioni biologiche che permettono alla quantità infinita di microrganismi simbionti di ripulire sistematicamente il terreno. Inoltre, la coltivazione in zone urbane se da una parte è esposta agli inquinanti cittadini, dall’altra è priva dei veleni che appestano le campagne: l’agricoltura industriale infatti equivale al traffico urbano.

COLTIVARE BIOLOGICAMENTE SI DEVE e dappertutto. Le verdure che troviamo al supermercato non sono di certo più pulite e per biologiche che possano essere, quando lo sono, non sono a km zero e comportano trasporto ed imballaggio. Impariamo a conoscere la phytoremediation, impariamo a fitodecontaminare i nostri suoli. Coltivare nelle città significa anche costituire oasi per la fauna, per le api, che nelle campagne dove l’agricoltura è meccanizzata, non hanno rifugio e l’avifauna è massacrata dalla caccia. Coltivare le città significa negli orti sociali e condivisi ricostruire aggregazione sociale, significa riscoprire i valori della solidarietà e della fiducia. Chi coltiva un orto in città non si faccia spaventare, chi coltiva un orto in città coltiva ecologia e libertà.