Quando era arrivata la notizia che il suo film era in concorso al Festival di Cannes, Alice Rohrwacher aveva detto: «Per me è già un premio». Da qualche giorno il suo visetto sotto ai capelli corti ci guarda mischiato a quelli degli altri cineasti nella selezione dalle pareti del Palais. Lei capita di incontrarla in giro sempre di corsa ma col tempo per fermarsi a chiacchierare anche un istante. Ecco, il suo film è così, bello, pieno di energia, e senza trucchi che non vuol dire «naif»; piuttosto è una dichiarazione di libertà narrativa, visuale, di invenzione, lontana dalle mode e dagli ammiccamenti. Come una maga scanzonata Alice Rohrwacher mischia qualcosa di sè, delle persone che ha incontrato, le trasforma in narrazione e ci porta dentro a un mondo, il suo mondo, facendoci condividere le sue avventure. Noi possiamo scegliere se entrarvi e scoprirne l’incanto. La meraviglia.

La protagonista è Gelsomina, splendida Alexandra Lungu – ma tutti gli attori nel film sono accordati con speciale armonia, un talento che la regista aveva mostrato già nel film d’esordio, Corpo celeste, presentato anch’esso a Cannes, alla Quinzaine des Realisateurs. Ha dodici anni, e vive in campagna, la sua famiglia appare un po’ strana, sono isolati, non guardano la televisione. Il padre tedesco che alleva api, la mamma che parla francese (dolcissima Alba Rohrwacher), la sorella Marinella, le piccoline, due minuscole «teppiste» indipendenti da tutti , e Coco che aiuta nel lavoro con le pecore e l’orto. È tedesca come Wolfang (Sam Louwick), padre caotico e disarmato, che gli altri agricoltori della zona temono per le sue sfuriate contro i pesticidi che fanno male ma che loro usano per andare veloci, i cacciatori che sparano, e per la cocciutaggine con cui rifiuta ciò che per loro è segno di modernità, come le regole di un mondo impacchettato formato Ue che lo distruggono.

Sono loro Le meraviglie che danno il titolo al film? (in sala il 22 maggio, produce Carlo Cresta Dini, dedicato a Baumi Karla Baumgartner, produttore di tanto cinema indipendente, che lo ha coprodotto ed è morto qualche mese fa). No, Le meraviglie sono un programma televisivo dove una fata tutta bianca e con lo sguardo triste (Monica Bellucci) deve premiare salsicce e formaggi prodotti nella zona. Tutti vogliono partecipare sperando di vincere i soldi in premio, di farsi un po’ di pubblicità, e soprattutto che la televisione riveli quell’angolo di mondo, ancora invisibile sulle rive del lago, richiamando turisti, e guadagno. La terra è faticosa, e di ricchezza ne dà poca, meglio aprire un B&B.

È dunque un cambiamento che racconta Alice Rohrwacher, la trasformazione di un paesaggio, di un luogo, che è al tempo stesso quella delle persone che lo abitano, dei loro pensieri e sentimenti, delle loro relazioni e consapevolezze. E una storia d’amore, tra Gelsomina e il padre fatta di complicità e sterzate brusche, legami profondi e ricatti affettivi come solo il rapporto con un genitore può essere. Alice Rohrwacher riesce a coglierne le direzioni impreviste, e senza mai abbandonare la molteplicità sposta il racconto nell’orizzonte della protagonista, e un po’come accadeva in Corpo celeste, la sua scoperta di sé diventa quella del mondo.

È una scoperta condotta con delicatezza, un romanzo di formazione che avviene sui margini dell’inquadratura lungo i quali la famiglia, e anche l’amato padre si trasformano pian piano in un «altrove». Di scontro e con la confusione dei sentimenti che appartiene all’adolescenza, quel bisogno di sentirsi come qualcuno, il «fuori», le amiche che si vestono da fata e partecipano al programma televisivo mentre il padre non vuole e la ragazzina insiste sino a sfidarlo.

Gelsomina è il capo di questa famiglia, a lei devono obbedire le sorelline, specie Marinella che un po l’ammira e molto la subisce. Da loro non ci sono porte, la vita si condivide e a volte dormono tutti insieme nel grande letto che il padre porta in giardino. Gelsomina con lui cura le api, è brava e non ha paura. Il padre l’adora, ha anche proiettato su di lei il suo desiderio di un figlio maschio, ma questa esclusività non ammette intrusioni. Un giorno arriva Martin, un ragazzino in rieducazione per furti e altro, non parla, non vuole essere toccato, ma sa fischiare in maniera incredibile. Tra lui e Gelsomina cresce un legame forte e impalpabile, è fatto di silenzio, di occhiate lunghissime, sfide mute di una alchimia che non ha bisogno di parole. Bastano i loro corpi, quello forte nell’impaccio delle sue trasformazioni di Gelsomina, e quello inesplorabile del ragazzino.

È la realtà dell’Italia di oggi di cui ci parla Le meraviglie? Quella della tv, e del «prodotto tipico» in cui si è trasformato il nostro paese e il consumo del mondo? O forse in un personaggio, e negli altri, prende forma una Storia più ampia, che gli occhi della ragazzina, come quelli della regista, ci svelano come in un caledoscopio. Non è infatti quello di Alice Rohrwacher un fare-cinema che impone dall’alto una visione del mondo. Ce ne porge spunti, frammenti che dobbiamo ricomporre, da cui la sua forza la verità. E come lo sguardo di Gelsomina sa andare oltre le apparenze, e rivela ciò che è invisibile.

Gelsomina  saprà vedere che la sua fata è piena di malinconia, e spente le luci della televisione non rimane nulla della meraviglia che l’aveva incantata. E suo padre dispotico si rivela all’improvviso fragile, col peso – o il vuoto – di una Storia che rimane fuoricampo, di utopie perdute o mai realizzate che difende con l’ostinazione che diventa paura, e esclusione del mondo. Non ha più armi né parole proprio come il contadino pronto a cedere tutto, che dal mondo so fa invadere.

Nella sua caverna di Platone (o del cinema), dà spazio libero del pensiero come è, deve essere l’immaginario, Gelsomina imparerà che l’incontro con l’altro, è scoperta, ricchezza, quando il mondo ti entra dentro e ti trasforma senza toglierti la cose preziose della tua storia. Le sue api e quel fischio che ora anche lei sa fare, pieno di gioia, e promessa amorosa di un «altro» mondo che è ancora possibile inventare.