All’inizio della crisi agli operatori sanitari sarebbe stato detto «espressamente di non utilizzare» le mascherine. I dispositivi di protezione individuale (dpi) sono stati forniti solo «dopo due settimane» dall’avvio dell’emergenza con una formazione inadeguata, nonostante il cambio di mansione per una parte del personale.

«La divisione dei percorsi “sporco-pulito” è stata approssimativa, con spazi improvvisati e mancanza di zone di filtro». Sono alcune delle risposte raccolte dal questionario, rivolto ai lavoratori dell’Ospedale Cardinal Massaia di Asti, e promosso da «Uniti si può», la lista nata ad Asti nel 2017 raggruppando pezzi di sinistra e movimenti civici, che conta in consiglio comunale due rappresentanti: Michele Anselmo e Mauro Bosia. Insieme a Torino, Asti è la provincia piemontese che ha avuto il maggior incremento di casi di Coronavirus nell’ultima settimana.

Il questionario, totalmente anonimo (a risposta multipla ma con una sola opzione possibile), diffuso attraverso un modulo online e grazie alla collaborazione del sindacato infermieri Nursind, ha raccolto in tre giorni le risposte di 177 lavoratori, un campione significativo (l’11,8% del totale) composto dal 93,2% di infermieri, operatori socio-sanitari, fisioterapisti, tecnici e impiegati e dal 6,8% di medici.

«Lo scopo dell’iniziativa non vuole essere quello di individuare colpevoli o capri espiatori, ma quello di predisporre maggiori e urgenti misure di sicurezza per tutti gli operatori sanitari. Non sono né santi né eroi, ma lavoratori che devono essere tutelati e che si sono trovati di fronte a rischi altissimi, nell’unico ospedale del territorio che ha ospitato anche pazienti di altre aree della regione», spiega Mauro Bosia, a nome del Gruppo.

«Ci auguriamo – aggiungono i consiglieri – che alcuni errori non si verifichino più, nella consapevolezza che qualsiasi emergenza deve essere affrontata con organizzazione, mezzi idonei e personale sufficiente nel numero e nella formazione. Noi siamo stati contattati da vari infermieri che lamentavano problemi d’ogni tipo in corsia, ben lontani dal trionfalismo del sindaco Rasero e dalle rassicurazioni fornite dalla dirigenza sanitaria, questioni in parte emerse nella puntata di Report sul Piemonte, ma che volevamo conoscere in modo più analitico per offrire un contributo alla comunità».

Il 41,2% degli intervistati sostiene che l’azienda abbia dato notizia della pandemia ai dipendenti «a fine febbraio», per il 39,5% «dopo il mese di febbraio». Alla domanda su «quando siano stati forniti i dpi» il 53,7% dei partecipanti ha risposto «dopo due settimane», ma solo al 19,9% la tuta protettiva completa, al 98,9% mascherine chirurgiche. A proposito di queste, inizialmente, all’80,2% degli intervistati sarebbe stato detto di non utilizzarle.

Per non spaventare i pazienti o perché così diceva l’Oms? «Undici partecipanti hanno riferito di una mail che ne proibiva l’uso, pena sanzioni». Per il 46,9% degli operatori non sarebbero stati assunti del tutto i provvedimenti necessari per la loro tutela. E dopo la segnalazione di sintomi da Covid-19, il 26,7% sarebbe stato sottoposto a tampone diagnostico da 4 a 7 giorni dopo, al 18,6% non sarebbe, invece, mai stato fatto. Sulle responsabilità della cattiva gestione per il 71,2% sarebbero di Regione e Direzione interna.