Michele e Antonio hanno cinquanta e cinquantuno anni, avevano vent’anni quando hanno cominciato a lavorare nella Isochimica di Graziano. Prima di allora qualche esperienza in lavori stagionali e dopo il terremoto del 1980 la possibilità di intraprendere una attività lavorativa che garantiva certezza di occupazione.

Antonio fu il terzo degli assunti nel settembre del 1982, segnalato da un tecnico delle FF.SS. e insieme ad altri quattro compagni di lavoro iniziò l’attività di smontaggio e scoibentazione delle vetture. L’azienda non era ancora costituita e le prime due vetture furono smontate nella stazione di Avellino, a pochi passi dai passeggeri. Misero in piedi un sistema e un processo di lavorazione sul quale si costruì il modello dell’attività. Li chiamavano «ingiarmatori», ma la loro esperienza di tecniche di lavorazione costituì la base di partenza del lavoro della Isochimica. Le carrozze erano state montate tutte a mano, non ce n’era una uguale all’altra, il procedimento di smontaggio doveva tener conto di questo. Tutte le carrozze delle Ferrovie dello Stato erano state coibentate con l’amianto, si trattava adesso, da quando era stata accertata la sua pericolosità, di smontarle e rimuoverlo. Nelle officine di Genova, Torino, Firenze, Castellamare fiutarono i pericoli di questa operazione e si rifiutarono di farlo. Toccava trovare una soluzione, e la soluzione la trovò Graziano: c’era un’area del paese depressa, un territorio devastato dal terremoto, nessuno ci avrebbe fatto caso. Isochimica nasce così. Quattro mesi di lavoro nero per mettere a punto le tecniche di lavorazione e si parte.

«Allora d’accordo, per adesso lavoriamo all’aperto, ma vedete laggiù… appena saranno ultimati quei capannoni sarete al coperto».

Attrezzi da lavoro: giravite, pinze, seghe, spatola. Per la polvere, una mascherina di carta. L’organizzazione del lavoro prevedeva gruppi di sette operai e un capo squadra per ogni singola vettura.

«Più che una vettura sembrava un tunnel buio – dice Antonio, -le finestre erano coperte da lastre di metallo, entrava poca luce, e noi avevamo soltanto una piccola lampadina. Appena cominciavamo a smontare il sottotetto veniva giù una polvere di carbone e amianto. Cominciavamo la spennellatura con le spatole e la pioggia s’infittiva. Nei vagoni si formava uno strato di nebbia grigia con venature di azzurro nella quale eravamo immersi per tutto il turno di lavoro. I capelli era pregni di polvere. L’amianto si depositava dappertutto, anche sulle cose che mangiavamo: respiravamo e mangiavamo amianto. La consapevolezza del pericolo c’è stata subito, ma ci dicevano che quelle polveri non erano pericolose. Poi nel 1983 mi mandarono a Firenze perché alcune vetture non erano state ripulite bene dall’amianto. Le vetture erano isolate e prima che cominciassimo la lavorazione furono spostate all’aperto, in un luogo lontano dall’officina. Nella pausa pranzo mi accorsi che gli operai mi evitavano, li tranquillizzai dicendo loro che mi sarei fermato lì soltanto per pochi giorni. Fu allora che uno di loro mi prese per braccio e mi portò in un corridoio le cui pareti erano ricoperte da articoli di giornale nei quali si parlava della pericolosità dell’amianto. Lì cominciò il problema e cominciai ad informarmi. Senza successo cercai di convincere anche i miei compagni di lavoro. Me ne sono andato alla fine del 1984, dopo due anni e mezzo di immersione nell’amianto, nessuno mi seguì. Nessuno si salverà. Sono stato sano come un pesce fino al 2011 quando la tak ha evidenziato placche pleuriche, tipico della contaminazione da amianto. Sono malato… insufficienza respiratoria, affaticamento fisico e del cuore. Questa azienda ha avuto vita facile in una zona disastrata… si è calpestato tutto… persone senza scrupolo. Sfruttamento intensivo… distruzione di una generazione… eravamo in 333, tutti giovani».

Michele fu assunto nel 1983, aveva 19 anni e 10 mesi.

«L’amianto veniva sotterrato in un terrapieno, poi furono scavate delle apposite buche, larghe e profonde. Non doveva uscire fuori che lavoravamo l’amianto. Le prime discussioni sulla pericolosità dell’amianto ricordo che iniziarono nel maggio del 1985 dopo le nostre denunce e uno studio dell’Università La Cattolica di Roma. La percezione della pericolosità l’ho avuta nel 1986. Nel frattempo si era passato dalle mascherine di carta alle maschere multi filtro che ricoprivano tutta la faccia e le tute monouso, dalle quali però filtrava tutto, fibre d’amianto comprese. Dove si sviluppava la polvere non c’era scampo. Me ne sono andato il 15 gennaio del 1989. In quell’anno ho vinto un concorso nella polizia municipale di Salerno, e sono contento e soddisfatto. Ma qualche preoccupazione continuava ad agitarsi nel cervello quando sentivo notizie giornalistiche sull’amianto, le orecchie mi si drizzano. Per non sentire cose cattive ho voluto dimenticare, fino a quando non ho fatto la spirometria (1996). Nella respirazione forzata, inconsciamente, avevo preparato la mia respirazione perché potesse dare il massimo nella speranza di superare l’esame e farmi dire che non avevo niente. Da quella volta ho fatto parecchie notti insonni pensando al fatto che l’amianto avrebbe potuto uccidermi, poi mi sono quietato da solo senza parlare mai con la famiglia. Con chi ne devi parlarne di questo, diventa difficile. Parli con la moglie della paura che hai di morire? Non mi pare proprio un argomento sano. Angosce che non puoi scaricare sugli altri e non sai con chi sfogarti. Questa situazione e durata per molto tempo. Poi un giorno mi hanno chiamato Carlo e Nicola, due ex compagni di lavoro di Avellino, era il 2006, mi hanno chiesto se avevo conservato materiale della Isochimica. E’ stata la prima mazzata in fronte. Anche se erano passati 15 anni avevo ancora tutto: carte chiuse in una busta mai buttate via (un segno!). Forse riusciamo a fare qualcosa mi dissero, c’era bisogno di manifestare per noi e per il Borgo Ferrovia. Ho cominciato a non dormire più. Ricordo una frase nuda e cruda di Carlo: guarda che il male o c’è o non c’è. A cambiare non possiamo cambiare niente, quello che possiamo fare è guardare al futuro e dare una speranza alle nostre famiglie. E lì mi è scattata la molla di cacciare la testa da sotto la sabbia, nascondere a se stessi il problema non serve a niente, la situazione va affrontata, e ho ricominciato a frequentare i compagni di Avellino. A casa di tutto questo non ho mai parlato, e ancora oggi evito di parlarne. Ho sempre sostenuto che la casa è un rifugio personale. Tenere fuori tutti i problemi, gli acciacchi. Fuori da questa brutta storia. Il male c’è o non c’è, vivere con dignità, lottare con dignità, e trasmettere dignità ai figli, e fare in modo che anche loro si educhino alla dignità».