E così, siamo entrati nell’estate salutandoci con vigorosi colpi di gomito al posto della stretta di mano, ne siamo usciti con il consiglio contrario, ovvero che è meglio evitarli. L’Oms ci ha avvisato che il gomito-scontro ci costringe, ma questo lo avevamo capito fin dall’inizio anche da soli, ad avvicinarci l’uno all’altro abolendo la prudenziale distanza di un metro.
Confesso che non sono andata in gramaglie per l’abbandono del poco elegante darsi di gomito. Ricordo come, seguendo le cronache da Bruxelles nei tre giorni da condor che hanno partorito il recovery fund, persino i politici d’Europa si toccavano a destra e a manca compiaciuti di quel nuovo gioco che faceva loro alzare e sfregare l’angolo del braccio per salutarsi. Molti di loro svolgevano il compito con puntigliosa attenzione, qualche sorriso e, soprattutto, fiero sprezzo del pericolo perché a ogni gomitata sfidavano non solo il virus, ma anche il temuto colpo della vedova, cioè quella scossa elettrica che paralizza il braccio per alcuni secondi quando si urta l’incrocio fra omero, radio e ulna. Perché lo chiamino così non lo spiega nemmeno la Treccani che, sotto la voce scòssa, cita il mal della vedova o mal della suocera come linguaggio familiare ed espressione popolare per indicare un «dolore acuto e improvviso, accompagnato da una sensazione di formicolio, che si irradia dalla regione del gomito al dito mignolo quando viene urtato fortuitamente il nervo ulnare».

MESSI da parte la stretta di mano e la toccata di braccio, seppelliti chissà fino a quando i due baci sulle guance, che in certi Paesi europei sono tre, e meno male perché tutto quello sbaciucchiarsi non mi ha mai entusiasmato, si è presentato il problema di come salutarsi con cordialità senza avvicinarsi. La questione non è peregrina perché ha introdotto un vero e proprio cambio di costumi soprattutto fra i popoli che amano toccarsi e che fin da piccoli sono abituati a sfregarsi questa o quella parte del corpo. Se noi abbiamo dovuto rinunciare alla stretta di mano, i Maori hanno messo da parte l’hongi che prevede lo sfregamento di fronte e naso, i galanti d’antan il baciamano che figurati quanti germi e batteri sparge sul corpo, gli amiconi il darsi il cinque o il pugno contro pugno, detto anche fist bump, i mongoli lo zolgokh che consiste nel tenersi reciprocamente gli avambracci. Sempre l’Oms ha consigliato di adottare la mano sul cuore, ma noto che da noi fatica a prendere piede (il bisticcio fra estremità è voluto).

LE ABITUDINI sono dure a morire ed evidentemente non siamo ancora pronti ad adottare il saluto tipico di molti paesi asiatici che consiste nel congiungere le mani davanti al petto o al viso e che si chiama namasté in India, Ceylon e Nepal, wai in Thailandia, sampeah in Cambogia, nop in Laos. Non nutro molte speranze nemmeno sull’inchino giapponese che risponde a un cerimoniale preciso fra cui quello di piegare la schiena dai 15 ai 45 gradi secondo la formalità della situazione. Ve lo immaginate il vicino di casa, la commessa del super o il capoufficio che si fermano per prostrarsi anche solo ad angolo acuto? O il conoscente che incrociate mentre correte a prendere l’autobus o il treno che si blocca per congiungere le mani davanti a voi? Certo, abbiamo il ciao con la mano aperta che pero non si può adottare con tutti. Non possiamo nemmeno recuperare il togliersi il cappello non foss’altro perché… quanta gente vedete con ancora in testa un Borsalino? Del saluto militare o romano neanche a parlarne e, quindi, che cosa ci resta? Io un’idea ce l’avrei. Augh!

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