La scomparsa di Chuck Berry lascia un vuolo incolmabile nel mondo del rock. Senza i suoi riff, il modo di saltellare sul palco (la caratteristica camminata dell’oca), le gambe «a spaccata», i brevi assoli brucianti che sorreggono e sospingono i pezzi niente sarebbe stato lo stesso. Parola di Angus Young (Ac/Dc) che letteralmente costruisce se stesso (suoni e movenze) su Chuck Berry; di Keith Richards che lo imita in tutto e per tutto e che debutta con i Rolling Stones con la cover di Come on, una canzone dello stesso Berry del ’61; e parola anche dei Beach Boys che ricalcheranno Surfin’ Usa (1963), sulla sua Sweet Little Sixteen. Per non parlare dei Beatles che omaggeranno l’artista con una furiosa versione di Roll over Beethoven.

Ma il gioco di chi è stato influenzato da Berry e di quante volte uno stesso artista ha rieseguito e saccheggiato il repertorio del musicista è ozioso perché chiunque venga dal rock gli deve qualcosa. Chuck Berry è stato il primo a fare assoli, a scrivere e cantare le proprie canzoni, a coreografarle con una presenza scenica che è divenuta il lessico fondante della musica pop/rock e il punto di partenza (consapevole o meno) di tanti futuri musicisti. Il suo classico Johnny B. Goode (1958) – rieseguito da chiunque – rappresenta la quintessenza del r’n’r ed è tra i primi brani a fare contemporaneamente due cose: raccontare una storia e presentare il suo assolo di chitarra più evoluto, quello che lo trasformerà nel primo «guitar hero». Permane il caratteristico incipit di chitarra (scelta poco ortodossa, ieri come oggi), splendida e definitiva modificazione di precedenti assoli introduttivi presenti in altri brani dell’artista. Quel pezzo è anche il primo, grande esempio di narrazione rock: mette in scena l’idea di speranza, mobilità sociale, salvezza, rendenzione, immortalità che popoleranno una sfilza di brani da lì in poi. Disvela il senso del rock e delle possibilità che quell’universo offre, con Johnny B. Goode, il protagonista – descritto per opportunità e convenienza come un country boy (in realtà è un black boy come Berry) – che pur poverissimo (non come Berry) attraverso quella musica può farcela, può sognare e vivere il sogno americano. Bruce Springsteen, tanto per fare un esempio, è tutto lì dentro.

E poi il linguaggio. Berry è colto, proviene dalla borghesia afroamericana, ha studiato alla Sumner High School, prestigioso istituto solo per neri, il primo a ovest del Mississippi. Nei suoi testi la scelta dei termini è accuratissima, sempre in bilico tra linguaggio formale e colloquiale (botheration anziché bother, motorvating anziché driving ecc.), capace di parlare alla testa e al cuore dei ragazzini, bianchi e neri che lo ascoltano. Inoltre quando esce Johnny B. Goode (1958) Berry ha già 32 anni, non certo il modello ideale di teenager (termine inventato con l’avvento del rock’n’roll e soggetto di riferimento del genere), piuttosto un fratello maggiore – Elvis ne ha 19 quando debutta con That’s All Right; Berry è dunque un adulto, sa esattamente quello che sta facendo, sa a chi sta parlando e sa come rivendicare nelle canzoni la paternità di un genere – pensato e fatto perlopiù da adolescenti per adolescenti – che ha contribuito ad edificare.

Ecco allora che in Rock and Roll Music, un altro suo classico del 1957 sentenzia: «Fatemi sentire quella musica rock’n’roll, se vuoi ballare con me deve essere rock’n’roll, non ho niente contro il jazz moderno a meno che non lo suonino molto più veloce e non cambino la bellezza della melodia». Dice: «ballare con me», e non è un caso. E soprattutto quella musica la chiama per nome: è sua. Perché è vero che la parola «rock» campeggia in pezzi di Bill Haley o dello stesso Elvis ma mai in una canzone un genere si è autorappresentato in maniera così esplicita.

L’anno prima è addirittura didascalico. Nel pezzo Roll over Beethoven menziona blues, r’n’b e il violino del country, tutti ingredienti fondamentali del nuovo genere musicale; tralascia il pop (Sinatra ecc.) tipico della borghesia adulta urbana ma in compenso tira dentro Beethoven e Cajkovskij, altre pedine fondamentali di quel mondo middle class bianco che adesso dovrà vedersela con questa nuova musica. Parla anche di blue suede shoes, omaggiando l’omonima canzone dell’amico Carl Perkins, menziona il ruolo del dj radiofonico senza il quale questa musica non si può diffondere, i balli scatenati che ti fanno venire la polmonite rock (rocking pneumonia) ecc.

Anche per queste descrizioni puntuali Chuck Berry è il vero padre del rock’n’roll, colui che su disco ne tramanda il senso, le parole, gli idiomi, lo storiografo che racconta la storia mentre la scrive. Dirà in un’intervista: «Ho fatto dischi per persone che se li sarebbero comprati, nessun colore, provenienza etnica, ambito politico, non mi interessava». E in un’altra: «Quello che mi distingue è che io ho rigorosamente (strictly) registrato le mie canzoni affinché rappresentassero l’identità del teenager, la sua vita, e non si parlava troppo d’amore, quello con cui avevano a che fare era la scuola». Da qui pezzi come School Days perfettamente ricalcata su dinamiche scolastiche e sul mondo dell’adolescenza e tante altre perle scritte apparentemente «dall’esterno», da adulto, pur mantenendo uno sguardo sempre sorprendentemente interno al mondo che andavano a descrivere. Vorrà pur dire qualcosa che Johnny B. Goode sia l’unico pezzo di rock’n’roll presente nel Voyager Golden Record, il disco in orbita dal ’77 con il Programma Voyager (1977). Anche lassù qualcuno lo ascolterà per sempre.