Come atolli in balia delle acque agitate dell’oceano, le sempre più rare comunità ebraiche sparse in luoghi diversi del mondo guardano ad un futuro quanto mai appesantito dall’incertezza. A chi affidare la memoria, la storia, la difesa stessa della continuità delle tradizioni religiose e culturali? «Potrebbero non esserne rimasti molti di questi ebrei, ma vogliono restare dove sono e continuare a preservare la loro comunità. Non gli piace che ci si riferisca a loro come a un futuro perduto», afferma la fotografa statunitense Chrystie Sherman che dall’inizio del nuovo millennio dedica loro il progetto Home in Another Place, cercando tenacemente quelle tracce per mapparle con il mezzo fotografico. Un obiettivo che l’ha portata sulle coste del Mediterraneo, dal Nord Africa al Medio Oriente, in Asia Centrale fino all’ex Unione Sovietica spingendosi anche a Cuba.

Il termine «ultimo» a cui si riferiva il titolo iniziale del suo progetto – Lost Futures: Journeys into the Jewish Diaspora – del resto ricorre spesso anche in altre fonti, pensando a quelle letterarie sull’ultima generazione degli ebrei yemeniti nel libro di Zion Mansour Ozeri Yemenite Jews. A photographic Essay, così come al romanzo di Amanda Sthers (all’anagrafe Amanda Queffélec-Maruani) Gli ultimi due ebrei di Kabul. «Le feste ebraiche non hanno senso se non si è una famiglia, se la cucina non è piena di odori e di canti. Siamo i due soli ebrei di Kabul. Siamo i due soli ebrei dell’Afghanistan. Per una settimana, Alfred e io siamo costretti a ricordarci dei sapori, dei suoni dei bicchieri e delle risate. Costretti a farlo insieme perché dà l’idea di allegria – scrive la scrittrice e cineasta francese di origine tunisina sefardita – Ci rallegrava che qualcuno ci ascoltasse. Quando si bisbigliano i ricordi dentro di sé ci s’intristisce».

CHRYSTIE SHERMAN usa il cavalletto per ritrarre con il medio formato i volti della gente, entrando nei rituali della quotidianità domestica, nella sala da pranzo come nell’aia, nei vicoli di fango dei villaggi sperduti, tra le palme da cocco e nelle locande davanti a un tè preso dal samovar, prima o dopo la preghiera del minian, in attesa di celebrare lo shabbat o per il Bar Mitzvah quando s’indossano i vestiti della festa. Momenti che si succedono nel tempo, registrati a Santiago de Cuba, Taskent, Samarcanda, Kochi, Kiev, Alibar, Tbilisi, Tunisi, Teplyk, Odessa, Rodi, Djerba, Larissa, Antakya… La fotografa lascia trapelare un sentimento di empatia che si riflette nello sguardo dei suoi soggetti, in quella luce assecondata dalla luminosità di un bianco e nero che non è mai esasperato. Lo scatto è il momento che suggella l’incontro: Sherman diventa portavoce di storie che non si stanca di ascoltare e osservare, anche quando la realtà supera l’immaginazione come nel maggio 2009 a Kabul, dove con non poche difficoltà riesce a fissare l’incontro con Zabolon Simantov, uno dei due ebrei di Kabul (l’altro era Yitzhak Levin) che la riceve sopra la sinagoga.

«Le pareti della stanza erano dipinte di rosa pallido e sul tavolo c’era una scatola aperta di matzos Manischewitx e bicchieri da tè», ricorda la fotografa. «Notai un piccolo fornello per l’acqua bollente e fu subito chiaro che ero solo una dei tanti giornalisti che volevano un’intervista con l’ultimo ebreo in Afghanistan, diventato negli anni una celebrità».
Dopo il tè si spostano nel cortile per la caotica sessione fotografica; lei riesce appena a fare un paio di foto quando l’uomo si alza e parlando insistentemente di soldi la conduce in un altro ambiente profanato dai talebani, dove i libri di preghiera carbonizzati sono visibili negli armadi aperti. La tzedakah o pushkah (cassetta per la beneficienza) è in bellavista perché sia chiaro che bisogna lasciare una donazione: quando però Sherman tira fuori una banconota da 100 dollari che offre in segno di gratitudine, lui offeso la getta a terra con rabbia chiedendo (inutilmente) 1000 dollari! «Io e la mia guida rimanemmo lì senza parole. Per fortuna le due immagini che sono riuscita a scattare mostrano in una luce più positiva l’ultimo ebreo dell’Afghanistan».

A MARRAKECH, invece, fotografa il guardiano cieco del cimitero israelitico con la djellaba, gli occhiali scuri e il bastone in una scenografia dell’abbandono. Un’immagine che rimanda alle parole di Elias Canetti in Le voci di Marrakech. Note di un viaggio. «È il deserto degli uomini morti, sul quale non cresce più nulla, l’ultimo, estremo deserto».
Un luogo ancora più desolato se paragonato alla vivacità del mellah animato dalle voci dei bambini, come lo descrive il futuro Premio Nobel per la Letteratura quando nel 1954 soggiorna nella città rossa del Marocco. Un ricordo totalmente sbiadito al giorno d’oggi, analogo a quello evocato dalla vista di altri cimiteri ebraici come quello di Ben Gradane in Tunisia o di Samarcanda.

SONO CERTAMENTE più vivaci gli interni delle sinagoghe, magari proprio quella Paradesi a Kochi, in Kerala, nel quartiere in cui Sherman fotografa l’anziana ricamatrice con la sua fedele domestica indiana. Anche qui, nel Sud dell’India, la comunità è ormai ridotta a una manciata di membri: la maggior parte degli ebrei stanziati da prima dei portoghesi sono emigrati, ormai da tempo, in Israele. Inevitabilmente, da una parte queste immagini sono attraversate da un percepibile senso di malinconia, dall’altra esprimono la forza di volontà di quella sopravvivenza che è innata nel popolo ebraico.
Per la stessa autrice è stato subito chiaro fin da quel primo viaggio che nel 2002 l’ha portata in Ucraina, terra natale del suo bisnonno, dove trascorre tre settimane fotografando compulsivamente chiunque incontrasse in giro per tutti i più piccoli shtetl («villaggi» in yiddish) tra Odessa e Kiev. Da allora sono passati vent’anni: il progetto è cresciuto in maniera esponenziale con le immagini raccolte in una dozzina di paesi. La pellicola in bianco e nero lascia sempre più spazio al colore delle fotografie digitali più recenti che l’autrice pubblica sulla piattaforma virtuale Diarna («le nostre case» nella lingua giudeo-araba).

FOTOGRAFIE che diventano documenti preziosi, come quelle dei maestosi interni dell’antichissima sinagoga Jobar di Damasco che nel 2014 è stata completamente distrutta dall’esercito di Assad.
«Diarna è l’altra faccia della medaglia di Home in Another Place che archivia visualmente le comunità ebraiche in pericolo d’estinzione, le cui radici affondano negli antichi patrimoni babilonesi, persiani, ashkenaziti e sefarditi e che per oltre duemila anni sono emigrate in aree molto lontane, dai confini estremi della Manciuria al Nord Africa», afferma Sherman che nel 2016 ha percorso oltre mille chilometri in Tunisia per fotografare 35 siti ebraici quasi cancellati dalla storia, recandosi nel 2019 anche nell’Italia del Sud. «Ho assistito a quello che l’emigrazione stava facendo a comunità che un tempo erano vitali, trasformando molti di quei luoghi in villaggi-fantasma, frammenti di se stessi».

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SCHEDA. Una memoria  in bianco e nero 

Chrystie Sherman (Chicago, vive e lavora a New York) attualmente fotografa per la piattaforma non-profit Diarna (www.diarna.org) che si occupa della memoria delle comunità ebraiche nel mondo. Ha studiato all’Università del Vermont, all’Università di Parigi e alla Graduate School of Film and Television della New York University. Tra il 1997 e il 2000 è stata fotogiornalista per l’Associated Press. Nel 2002 inizia il progetto «Home in Another Place» (originariamente chiamato «Lost Futures: Journeys into the Jewish Diaspora») che è stato esposto a livello internazionale. Tra le sue mostre: Acta International, Roma nell’ambito del festival FotoGrafia 2005; Austrian Embassy, Washington Dc 2006; The Borowsky Gallery, Philadelphia 2011; Jewish Museum, Salonicco 2013. In corso di pubblicazione per l’editore Steidl il libro «Home in Another Place».