Non ho mai pensato ai miei film come a horror». Così raccontava Christopher Lee a John Landis in un’intervista del 2011. Nella stessa conversazione, pubblicata su un libro di Landis dedicato ai grandi mostri del cinema, Lee spiegava di aver cercato di sfuggire invano a Dracula, il suo personaggio più famoso.

Dopo la sua prima incarnazione del conte vampiro, nel capolavoro di Terence Fisher Dracula (1958), l’attore inglese racconta al regista americano: «Il telefono suonava ed era il mio agente: ’Christopher! Jimmy Carreras, il presidente della Hammer Films ha un altro Dracula per te’. E io: Non se ne parla nemmeno. Al che Carreras mi chiava fuori di sé: ’Ma sei matto? Non puoi dire no’. Certo che posso, rispondevo. E lui: ’Ma io ho già prevenduto il film in America sulla base del tuo nome. Pensa a quanta gente che conosci rimane senza lavoro se non lo fai’. Ricatto emotivo, ecco l’unica ragione per cui ho accettato i film», conclude Lee che in Dracula: Prince of Darkness (sempre Fisher, del 1966) è praticamente muto (anche se sibila moltissimo). Trovava infatti le battute della sceneggiatura così orrende che si rifiutò di pronunciarle.

Grande attore di piglio nobile, shakespeariano, anche quando faceva film che si intitolavano The Torture Chamber of Dr. Sadism o The Butcher, The Star and The Orphan, dalla voce abissalmente profonda e dagli occhi di un nero incandescente, presenza monumentale in settant’anni di cinema di genere per un totale di circa duecentocinquanta titoli, faro della generazione dei registi cinefili che hanno ancorato alla sua arte tantissimi dei loro film – da Tarantino a Tim Burton – cavaliere della corona britannica, cantante d’opera, musical e symphonic metal e l’ ombra che ha stregato le notti di milioni di noi tutti, Christopher Lee è morto domenica 7 giugno (ma la notizia è stata resa pubblica solo ieri per desiderio della famiglia), poche settimane dopo il suo novantatreesimo compleanno. Lo avevamo visto solo pochi mesi fa, in The Hobbit: Battle of the Five Armies, cappa e lunghi capelli bianchi al vento, feroce come al solito, nel ruolo del mago Saruman. Era il suo quinto ritorno nell’universo di Tolkien, una frequentazione che però non gli ha impedito di diventare un regular in un’altra grandissima franchise contemporanea, quella di Star Wars, in cui interpretava il Conte Dooku, aka Dark Tyranus.

Nato a Londra nel 1922, nell’elegante quartiere di Belgravia, Lee era figlio di un luogotenente dei fucilieri della corona inglese e della contessa Estelle Marie Carandini, una famosa bellezza edoardiana, figlia a sua volta di un rifugiato politico italiano e di una cantante d’opera. I suoi divorziarono quando era piccolo ma Lee crebbe in un ambiente benestante: «É vero che una volta non abbiamo viaggiato in prima classe sul treno. Ma deve essere stato un errore di prenotazione».

Il ragazzo frequenta le scuole migliori, il collegio militare di Wellington, poi l’università, è uno studente brillante, con passione per la lettura, ama il greco antico e il latino, parla francese, russo, italiano, tedesco.

Dopo aver finito le scuole, Lee cercò impiego presso la business community di Londra. La decisione di diventare un attore arriva solo dopo aver combattuto la seconda guerra mondiale nella Royal Air Force, paracadutato in missioni rischiose oltre la linea nemica in Italia e in Africa del nord.

Lee ha spesso di detto di non ricordare con esattezza cose lo spinse in quella direzione, recitare: «Probabilmente il bisogno di creare identità diverse dalla mia. Era la cosa che sapevo fare meglio di qualunque altra». La svolta arrivò nel 1956, quando l’inglese Hammer Films gli chiese di interpretare uno dei mostri della grande tradizione gotica hollywoodiana nel primo film di una quella che sarebbe stata una fortunatissima serie, The Curse of Frankenstein. «Mi volevano per il ruolo di quella creatura perché ero alto quasi due metri» racconterà anni dopo, attribuendo alla proprio alla statura anche la causa di aver avuto, fino a quel momento, poche offerte di lavoro – Vivevo in uno stato di costante imbarazzo».

Il Frankestein originale di James Whale, con Boris Karloff nella parte del mostro, era stato uno dei film che più lo avevano spaventato da bambino. E lui e Karloff diventarono molto amici. Sempre nella reinvenzione Hammer del ciclo gotico della Universal Lee interpretò anche la mummia, in The Mummy. Ma si deve a Bram Stoker, piuttosto che a Mary Shelley, il personaggio con cui verrà identificato per sempre, Dracula, il conte vampiro – il cui mantello Lee indosserà per dieci film, anche se quando Saturday Night Live gli chiese di fare Dracula in uno sketch rispose di no.

La figure inquietante del vampiro dei Carpazi viene riempita da Lee di una carica erotica e di una nuova ambiguïtà. Lee infonde nella sua «creatura» un fascino di seduzione che segnerà l’immaginario fantastico degli anni a venire. La sua impronta ai personaggi li fonde nell’immaginario collettivo. Adorato dai registi cresciuti a pane e cinema, Lee venne adottato, oltre che da Peter Jackson e da George Lucas, anche da Joe Dante (in Gremlins 2), da John Landis (bellissima la sua uccisione, in Burke and Hare), da Steven Spielberg (1941). Disse però di no ai fratelli Zucker lo volevano per il pilota di Airplane!. e il ruolo andò invece a Leslie Nielsen.

Nonostante avesse vissuto e lavorato molto in America, Lee rimase indissolubilmente legato all’immaginario fiammeggiante della Hammer: «Non c’è veramente molta differenza in quello che fa la Hammer e quello che fa una major come la Paramount, eccetto che la Hammer fa molto di più con molto meno» disse in un’intervista del 1973. Tra tutti i film che ha interpretato il suo favorito era The Wicker Man (diretto da Robin Hardy)