Una notevole audacia innovativa e, soprattutto, la genuinità, a volte persino sconcertante, delle sue testimonianze cliniche contrassegna le proposizioni teoriche del libro di Christopher Bollas ora riedito a trent’anni dalla prima uscita italiana, Forze del destino (traduzione di Daniela Molino, Raffaello Cortina, pp. 232, € 18,50). L’intero ragionamento sviluppato dallo psicoanalista britannico poggia sul presupposto per cui il «vero Sé», ovvero il nucleo dell’essere di ogni persona, è un dato già presente alla nascita. L’idioma che definisce il carattere unico e irripetibile di ogni singolo vivente, il suo marchio identificativo, è – secondo Bollas – innato.

Non vengono chiarite le ragioni di un’affermazione così perentoria, a sostegno della quale lo psicoanalista britannico porta, in effetti, una sola argomentazione, derivata dalla propria esperienza di genitore, di padre di un bambino (suo figlio, per l’appunto) che è stato sé stesso (così è detto nel libro) fin dall’inizio. Nell’annoso dibattito tra innatisti e culturalisti, Bollas si schiera nettamente, pur ammettendo di non essere in grado di motivare la sua convinzione. Compito di chi si prende cura del bambino (famiglia, innanzitutto, e agenzie educative in senso lato) sarà, di conseguenza, favorire lo sviluppo e l’espressione del vero Sé, consentendo la piena realizzazione di quanto è costituzionalmente «proprio» (la disposizione ereditaria).

Su questa tesi basilare si erge l’intera architettura speculativa del libro, che anche per chi non ne condivide il riferimento teorico di fondo, è comunque un’importante investigazione sulla psicoanalisi contemporanea. La distinzione tra fato e destino, la proposta di una pulsione di destino, l’uso dell’interpretazione, le considerazioni sui fenomeni di dipendenza, la questione del controtransfert (insieme a molte altre) sono temi affrontati da Bollas con grande libertà di pensiero, senza alcuna remora nell’uscire dal solco dei consumati ritornelli dell’ortodossia analitica. Una attitudine alla ricerca e all’espressione svincolata dal politically correct, addirittura enfatizzata quando la riflessione teorica si incrocia con l’esperienza clinica e si traduce in una sorprendente condivisione della tecnica analitica, che egli stesso utilizza.

Partendo dall’idea che l’analista debba offrirsi come oggetto, utilizzabile dal paziente per venire a sapere qualcosa dell’uso che ne fa (prototipo del suo modo di stare al mondo), Bollas ci apre le porte del suo studio e, con una impressionante sincerità, ci racconta i suoi interventi, anche quelli più distanti dalla prescritta neutralità analitica alla quale la tradizione freudiana ci ha abituati. Interventi a prima vista spigolosi, sproporzionati, persino fastidiosi: come quello rivolto, dopo l’ennesima lunga pausa di silenzio aggressivo, alla donna che per due anni aveva convertito in azioni, a volte in un ostile silenzio, la propria rabbia e le proprie rivendicazioni contro l’analista.

Altrettanto stupefacente risulta la correlazione che l’autore descrive tra le sue interpretazioni e i propri stati somatici: dal dolore, all’angoscia, alla stanchezza, ai pensieri«generati dal muro», dai giochi di luce sul tappeto, dalle nuvole fuori dalla finestra. Parimenti sorprendente, il risalto dato alla «celebrazione dell’analizzando», ovvero, alla valorizzazione del lavoro analitico effettuato dal paziente tramite l’enfatizzazione della reazione affettiva dell’analista alla sua propria presenza.

Senza troppi pudori, Bollas illustra dunque, dal suo punto di vista, le trasformazioni della tecnica psicoanalitica imposte dalla mutazione della domanda, che porta uomini e donne contemporanei in analisi, trasformazioni che gli analisti più allineati fanno fatica ad ammettere, per quanto a volte inevitabilmente coinvolti nella riconfigurazione della propria pratica analitica.
Sebbene, dunque, siano più che legittimi i dubbi sull’ereditarietà del carattere, sul ruolo di primo piano attribuito al controtransfert e, più in generale, su un’impostazione teorica che fa dell’intersoggettività il fulcro dell’attività clinica, resta il fatto che l’ultimo lavoro di Bollas ha l’innegabile merito di stimolare energicamente l’attuale dibattito psicoanalitico sulla necessità di un aggiornamento del dispositivo analitico e sulla riconsiderazione della posizione dello psicoanalista all’interno della cura.