Insieme agli anni della Rivoluzione, e forse in maniera ancora più decisiva, quelli relativi all’epopea della frontiera restano, nella storia statunitense, i più fecondi dal punto di vista della istituzione di una mitologia sociale e politica pressoché immortale. Pionieri, trappers e cowboy sono gli eroi epici di quell’immaginario, che vive ancora al fondo dell’inconscio nazionale. È del resto naturale che l’era in cui l’America come la conosciamo si è consolidata, espandendosi sul continente e acquisendo molti di quelli che sarebbero diventati i suoi tratti culturali distintivi, si estenda nei secoli come una sorta di rumore di fondo. Ed è dunque prevedibile che alcuni tra gli elementi individuati già più di due secoli fa dal decano degli storici della frontiera, Frederick Jackson Turner, continuino a riaffacciarsi tanto nella produzione letteraria contemporanea quanto nelle pagine di cronaca.

L’indipendenza difesa a costo della vita, il ricorso abituale alla violenza e la diffidenza nei confronti di qualsiasi intrusione delle istituzioni sono specialmente evidenti nelle sempre più frequenti apparizioni pubbliche di milizie riconducibili a vario titolo al libertarianismo di destra. L’accozzaglia di ideali a metà tra l’anarco-capitalismo e il nazionalismo esasperato che agitano gruppi come i Proud Boys e il movimento Bogaloo è indubbiamente figlia dell’epoca della frontiera e dell’evoluzione (e perversione) di quella visione del mondo, che resiste da centinaia di anni pressoché intatta.

Nel nome della violenza
È un altro celebre storico americano, Richard Slotkin, a dimostrare come la mitologia della frontiera, pur nelle necessarie metamorfosi dettate dall’evoluzione della società statunitense, abbia attraversato i secoli per giungere fino a oggi, in un flusso ininterrotto che va dal leggendario pioniere Daniel Boone, primo europeo a tentare di stabilire un insediamento nell’attuale Kentucky, all’era Kennedy.

Proprio dal Kentucky, frontiera primigenia, parte il viaggio raccontato da Chris Offutt nel suo ultimo romanzo, Il fratello buono (traduzione di Roberto Serrai, Minimum Fax, pp. 408, € 19,00), tra le pagine del quale si legge una riproposizione critica dell’epica del West accanto a una riflessione romanzata sui caratteri profondi dell’animo americano. Le opere precedenti di Offutt descrivono con affetto e dovizia di particolari l’umanità singolare che abita i monti Appalachi, una società fieramente avversa all’omologazione, stoica e isolata, ancora legata alle dinamiche tribali ereditate dalle popolazioni celtiche che per prime si stabilirono in quei luoghi. Anche questa volta l’autore parte dal territorio e dalla società che meglio conosce; ma, se già con A casa e ritorno si era avventurato fuori dallo stato del Kentucky, in questo romanzo tenta una summa antropologica dell’America nel nome della violenza, inseparabile dalla mitologia nazionale. Ed è proprio la legge del sangue a dare il via agli eventi.

Tutti nel villaggio di Blizzard si aspettano che Virgil vendichi l’omicidio del fratello Boyd, ammazzando a sua volta l’assassino e dando il via a una faida potenzialmente senza fine. L’alternativa è l’ignominia, la lettera scarlatta della viltà; un verdetto inaccettabile fra gli abitanti delle montagne. Il Kentucky di Offutt, come il Tennessee dell’illustre vicino Cormac McCarthy, si presenta ancora come una frontiera sanguinosa e praticamente non toccata dal progresso. In questo caso, l’elemento di più grande interesse è il collegamento che l’autore istituisce con la frontiera più giovane e canonica dell’ovest, utilizzando Virgil come vettore tra gli Appalachi e il Montana. L’inizio e la fine dell’espansione sul continente convergono nell’esperienza di questo personaggio, che nel muoversi verso ovest alla ricerca di redenzione tenta di riproporre idealmente il celebre paradigma della rigenerazione formulato da Slotkin. Una rigenerazione che passa inevitabilmente attraverso la violenza, perché, come scrive lo storico nello studio intitolato appunto Regeneration Through Violence, la psiche americana ha sublimato le efferatezze compiute durante l’epoca della frontiera rileggendole alla luce di una supposta, necessaria catarsi.

Nonostante Virgil aspiri alla purificazione e alla riconquista dell’innocenza perduta e Offutt sia prodigo di descrizioni sul potere salvifico della natura americana e dell’accettazione di uno stile di vita lontano dall’affettazione contemporanea, Il fratello buono sceglie di non abbandonarsi all’ingenua riproposizione dell’ennesimo Adamo americano. Non a caso, pur essendo per certi versi il romanzo di Offutt più accessibile per via di una certa qualità cinematografica (che in alcune scene si avvicina alle strategie hollywoodiane dell’ampio consumo), la storia di Virgil possiede in definitiva un cuore cupo e uno sguardo tanto malinconico quanto impietoso sull’America contemporanea.

Il Montana, lontano anni luce dagli Appalachi sotto ogni aspetto possibile, è una terra che nella promessa di libertà nasconde dinamiche forse addirittura più pericolose di quelle dei monti del sud.
Nel mettere a fuoco il problema dell’identità del protagonista, che si sposta da una enclave culturale a un’altra e sperimenta alla fine un doloroso estraniamento da entrambe, il romanzo drammatizza il conflitto perenne tra individuo e società che, originatosi dal liberalismo illuminista alla base del pensiero politico statunitense, si è evoluto fino a comprendere le manifestazioni di dissenso paranoiche e militarizzate dei nostri giorni, che entrano in scena nel secondo atto della storia.

Con uno scarto narrativo vincente, Offutt porta sulla pagina un’alt-right ante litteram talmente reale e minacciosa che l’era Clinton del romanzo (complice la tempistica di pubblicazione azzeccata della casa editrice) viene spogliata della pretesa di essere stata l’ultima epoca prospera e felice per gli Stati Uniti, rivelandosi piuttosto, nella lettura retrospettiva imposta dalla narrazione, come una sorta di subdolo incubatore silenzioso per le tensioni esplose nell’America di Trump.

Un retaggio di sangue
Il fratello buono sembra prendere a cuore l’estraneità delle due Americhe che rappresenta, additando apparentemente il West come un’anomalia sociale, un luogo completamente privo di legami tra gli individui oltre a quelli intrecciati per necessità nelle trincee dalla guerra comune contro Washington. Allo stesso tempo però, la continuità tra il Kentucky e il Montana non è negabile: la morte li unisce, infatti, legando nel retaggio insanguinato della storia americana anche tutti gli altri stati tra le due coste. Offutt mette in scena il negativo contemporaneo del dipinto di John Gast intitolato American Progress, in cui degli uomini marciano trionfalmente attraverso il continente, accompagnati da un’olimpica personificazione dell’eccezionalismo statunitense. Nel raccontare il viaggio di Virgil, un uomo braccato dai fantasmi personali, e da quelli non meno pericolosi della storia, il romanzo rovescia il trionfalismo dell’epica americana, esponendone con franchezza l’eredità complessa e insistentemente problematica.