Iscritto alla grande tradizione letteraria del Sud americano, Chris Offutt ha dato voce al microcosmo colorito, spietato e insieme esilarante delle masse di poveri che abitano le colline del Kentucky, un’area da sempre depressa e isolata, insofferente al controllo e alle intrusioni del progresso. La sua narrativa ha dunque, anche, un ruolo testimoniale e politico, che ci ha consegnato il ritratto rabbioso e colmo di umana compassione degli ultimi fra gli americani, investendo di una nuova luce uno dei pochi angoli ancora oscuri della nazione. Con la sua prima raccolta di racconti, Nelle terre di nessuno, aveva partecipato alla costruzione delle leggende dei monti Appalachi, un luogo – come scrive Alessandro Portelli in America Profonda – ancora oggi più vicino al mondo del sogno (o dell’incubo) che alla realtà. Spogliando il mito dei suoi attributi negativi, quelli proiettati dall’incomprensione dell’America mainstream, lo scrittore si dedica a una ricostruzione fedele, e non di rado brutale, di queste montagne, forse l’ultimo ventre oscuro degli Stati Uniti.

Nell’appena uscito A casa e ritorno (traduzione di Roberto Serrai, Minimum Fax, pp. 121, e 16,00), Offutt si sposta dal Kentucky natio e racconta le vite dei montanari che hanno abbandonato i boschi, e tentato la fortuna altrove. Funzionando come una sorta di testo complementare al primo, questa seconda raccolta ne stempera la cupezza, adagiandosi in una diffusa malinconia e mostrando lo spaesamento identitario di coloro che avendo abbandonato le logiche costrittive di una società antica, si ritrovano incastrati nelle dinamiche alienanti del capitalismo americano. Mentre racconta le vicissitudini dei suoi protagonisti nostalgici, Offutt drammatizza il dilemma di una cultura emarginata, divisa tra il richiamo della modernità e i legami atavici del sangue.

C’è, nella narrativa americana contemporanea, una forte componente regionalistica: alcuni dei migliori scrittori odierni hanno radicato le loro storie in piccoli contesti, o in luoghi periferici, per esempio Jesmyn Ward, o Kent Haruf. Lei si sente partecipe di questa sorta di «rinascimento regionale»?
I cinquanta stati americani sono diversi tra loro non solo per ciò che riguarda le risorse o la geografia, ma anche grazie alle persone che per prime vi arrivarono dall’Europa. Gli italiani si trasferirono soprattutto a New York, gli irlandesi a Boston e così via, e questo processo di migrazioni ha contribuito al regionalismo. Contemporaneamente, più o meno dalla fine della Seconda guerra mondiale, molte più persone si spostarono in città, con il risultato che i sobborghi divennero assai più popolati delle aree rurali, e molti scrittori si dedicarono alla rapresentazione della vita cittadina: penso alla Chicago del grande Saul Bellow, per esempio. Oggi, effettivamente, c’è un grande interesse per gli autori che provenendo da aree remote hanno mantenuto una loro specificità nel rispondere alla cultura locale. Non saprei dire se si tratti di un rinascimento, è comunque allettante credere che qualcosa si stia muovendo, e Jesmyn Ward ne è un ottimo esempio, così come altri autori afroamericani, parecchi dei quali vengono da aree che l’America mainstream ha ignorato o non ha saputo capire. Abbiamo buoni scrittori originari delle montagne del Kentucky, del delta del Mississippi, dei barrios del Texas o di Los Angeles, un fenomeno che trovo esaltante.

Mentre i racconti compresi in «Nelle terre di nessuno» hanno il carattere di una mitologia, «Country Dark» si avvicina al realismo sociale. Il modo in cui lei affronta la costruzione dei suoi personaggi è cambiato durante gli anni o la differenza riguarda piuttosto l’estensione del romanzo a fronte di quella breve del racconto?
Country Dark è un romanzo che copre un periodo di almeno vent’anni, forse di più, mentre nei racconti di solito viene fissato un momento breve nella vita di qualcuno, un giorno, magari due. La differenza è sostanziale. Ho scritto i racconti di Nelle terre di nessuno più o meno vent’anni fa, e spero da allora di essere maturato, di certo non sono più il giovane pieno di sogni e speranze che doveva dimostrare il proprio valore. Avevo ambientato quei racconti sulle montagne degli anni Ottanta e Novanta, mentre Country Dark restituisce lo sguardo sull’epoca in cui ero bambino, quando cominciò la cosiddetta «guerra alla povertà»: le strade sterrate vennero asfaltate, arrivò la statale, e per me tutto risultava interessante, in via di miglioramento. Con Country Dark ho voluto scrivere degli uomini e delle donne che, senza saperlo, appartenevano a un mondo destinato a scomparire, come è effettivamente successo.

«A casa e ritorno» è soprattutto una riflessione sull’idea di «sentirsi a casa». Essere «out of the woods» – «fuori dal bosco», come recita il titolo originale della raccolta – implica il raggiungimento di un porto sicuro; ma nel suo libro accade esattamente l’opposto. Tutti i personaggi principali hanno nostalgia del loro luogo di origine, tuttavia una volta tornati continuano a sentirsi fuori posto, facendo pensare a quel che suggeriva Tom Wolfe, ovvero che sia impossibile «tornare a casa».
Ma no, non interpreterei letteralmente la frase di Wolfe: credo volesse dire che mentre la casa lasciata resta uguale, noi partendo subiamo cambiamenti profondi e perciò al nostro ritorno non ci ritroviamo più. Ho scritto i miei racconti lungo i cinque anni in cui diventai padre di due figli. Vivevamo tra lo Iowa, il New Mexico e il Montana e l’idea di «sentirsi a casa» era legata alla ricerca di un luogo dove crescere i ragazzi. Lo stesso anno in cui ho finito il libro siamo tornati in Kentucky. Fuori dal bosco è un’espressione slang, vuol dire essere in salvo dal pericolo, ma io intendevo utilizzarla in entrambe le accezioni, anche quella letterale. Infatti, tutti i personaggi hanno lasciato i boschi dai quali provengono, ma non hanno familiarità con il mondo e non si sentono al sicuro. Per parte mia, non c’è alcun luogo dove vorrei stare se non le foreste degli Appalachi, ma neanche lì mi sentivo davvero a casa, come in un terribile circolo vizioso. Ero un disadattato e dunque me ne andai, senza tuttavia trovare mai il posto giusto. Nel corso della mia vita ho lasciato il Kentucky cinque volte e sono tornato quattro, rendendomi conto di ritrovarmi ogni volta più emarginato di prima.

All’inizio di «Nelle terre di nessuno» c’è una mappa dei luoghi in cui le storie sono ambientate, che fa pensare alla Yoknapatawpha di Faulkner, un posto tanto reale quanto immaginario. Più in generale, sembrerebbe rimandare a quanto dice Eudora Welty quando scrive che la definizione del setting è essenziale a una buona scrittura, perché fornisce un senso di direzione alla storia.
Per me, prima di tutto viene la terra: il luogo, le colline, le montagne, le foreste. Poi, il personaggio, spesso solo nei boschi: un uomo o una donna, a volte un bambino. Non cerco scientemente di costruire un «senso del luogo» o evocare alcunché, solo di rispettare e onorare le percezioni di quel determinato personaggio: cosa vede, cosa ascolta e cos’è importante per lui. Il paese in cui sono nato ha duecento abitanti, e non è segnato sulle carte degli Stati Uniti: perciò ne ho disegnato la mappa all’inizio del libro. È molto importante per me, perché è un modo di dire «questo luogo esiste». È un modo per dare vita e voce a geografie e persone che sono state ignorate, che non hanno potere economico o politico, e possono contare solo su loro stessi e sulla terra. Quando ero un giovane scrittore non riuscivo a trovare libri che parlassero dei miei luoghi, della mia gente o in generale dei poveri che abitano le montagne: era doloroso, e feci in modo che altri scrittori in erba non si trovassero di fronte a questa stessa privazione.

Lei parla spesso della influenza che ebbe Flannery O’ Connor sulla sua scrittura. Il tratto forse più distintivo dei libri della scrittrice originaria della Georgia è la presenza di una violenza spesso incomprensibile, quasi metafisica, diversa tuttavia da quella che si ritrova nelle sue trame, peraltro piene di atti brutali. Perché la letteratura del Sud e quella degli Appalachi in particolare sono così ossessionate dalla violenza?
Flannery O’ Connor usa la violenza come un simbolo, o una metafora, o come veicolo di un messaggio religioso. Nelle montagne dalle quali provengo la gente va a caccia per poter mangiare, macelliamo maiali, polli, compiamo atti violenti che hanno un fine pratico: nutrirsi. La maggior parte delle persone nel mondo non uccide animali per mangiare, c’è qualcun altro che lo fa al posto loro. Quando sei esposto a quel tipo di violenza, essa diventa più accettabile. Le montagne e i suoi abitanti suggeriscono codici antichi, una atavica lealtà verso la famiglia e un senso dell’onore molto personale, ma tutto ciò può portare a gesti brutali. Quando scrivo, maggiore è la pressione che metto su un personaggio, più estrema e spero imprevedibile sarà la sua risposta. È quanto succede in Country Dark.

Tra le altre influenze che lei cita spesso c’è quella di Hemingway, effettivamente evidente nel suo stile, anche se la sua scrittura sembra più lirica, forse anche più polifonica. Quanto l’ha influenzata la tradizione orale del Sud e degli Appalachi, l’amore della gente per il raccontare storie e storielle divertenti, la cui eco si avverte in particolare nei suoi dialoghi?
Mi ha influenzato enormemente. Ma dalla tradizione dei racconti orali delle montagne ho preso di più che da Hemingway: da lui ho imparato l’economia delle parole, da Flannery O’ Connor la strategia per strutturare una storia. Sulle colline e sulle montagne del Kentucky una persona su tre non sa leggere né scrivere: non c’è alcuna tradizione artistica e l’espressività è quasi esclusivamente verbale. La gente delle montagne parla in un modo bellissimo: la libertà del loro linguaggio, come mettono insieme questo e quello per creare qualcosa di nuovo che veicoli una specifica idea è ammirabile. Il nostro è un mondo parlante, non siamo loquaci ma abbiamo un modo speciale di utilizzare il linguaggio.