Per prima arriva la scoperta che una delle figure più importanti della propria infanzia non è chi si credeva fosse, bensì un criminale di guerra che non ha mai sentito la necessità di confessare le proprie colpe. Poi c’è l’incredulità del resto della famiglia di fronte a quella verità affiorata improvvisamente, il rifiuto a interrogarsi su quel lungo silenzio. Infine si fa strada la consapevolezza che l’itinerario del nonno dall’intelligence nazista e dalla Shoah all’arruolamento nel Bundesnachrichtendienst, i «servizi» della Germania democratica guidati dall’ex generale di Hitler Reinhard Gehlen sotto l’egida della Cia, riassuma a grandi linee quello dell’intero Paese, passato dal consenso di massa al Terzo Reich all’adesione altrettanto entusiasta alla società di mercato sostenuta dal Piano Marshall, senza aver mai fatto davvero i conti con se stesso.

I fantasmi cui Chris Kraus, scrittore e regista cinematografico (Quattro minuti uno dei suoi titoli più noti) dà voce in Figli della furia (Sem. pp. 902, euro 22) a partire dalle figure di Koja Solm e di suo fratello Hub, lungo un arco temporale che va dalla Riga di inizio Novecento alla Berlino degli anni Settanta, hanno così a un tempo il profilo degli affetti più intimi e nascosti e il volto della grande rimozione collettiva operata nella recente storia tedesca.

Il romanzo trae origine dal desiderio di comprendere il ruolo che suo nonno ha svolto durante il nazismo e nel dopoguerra. Come è iniziata la ricerca e quale ne è stato il punto d’arrivo?
All’inizio si è trattato di una pura coincidenza. Mi sono imbattuto in un libro sul generale russo Vlasov – un disertore che dal 1943 aveva combattuto al fianco dei nazisti contro l’Armata Rossa, insieme a migliaia di volontari russi. Tra l’altro, con l’aiuto di mio nonno, come imparai da una piccola nota a piè di pagina. Con mia grande sorpresa scoprii un breve riferimento alla sua presunta affiliazione alle famigerate SS Einsatzgruppen coinvolte in innumerevoli massacri. Non ne avevo mai sentito parlare prima.

In famiglia si taceva su questo?
Non solo si taceva, ma di tutto questo non si sapeva niente. Sapevamo soltanto che mio nonno era stato un ufficiale delle Waffen SS (il corpo combattente delle SS, ndr). Lo sapevo anch’io, fin da bambino; all’epoca non era considerato grave. Il nonno era stato un bravo soldato, non un nazista. Questo era il racconto e la versione che aveva creato per sé. E poiché era un anziano gentiluomo amabile che dava molto valore al decoro personale, oltre ad essere colto, dotato di senso dell’umorismo e attivo nella comunità cristiana, non c’era la minima ragione per dubitare di questa rappresentazione.

Lo scrittore e regista cinematografico Chris Kraus

Che cosa ha fatto dopo aver letto questo libro?
Non potevo affrontare più mio nonno, era morto da tempo. Così presi quattro settimane di ferie, mi rivolsi ai diversi archivi credendo di poter verificare in questo lasso di tempo come erano andate veramente le cose. Queste quattro settimane sono poi diventate dieci anni sconvolgenti. Era come aprire il vaso di Pandora. Dai documenti d’archivio e dalle interviste ai testimoni emersero elementi pazzeschi: mio nonno era stato un agente dei servizi segreti di Hitler, era responsabile di centinaia di morti, aveva torturato e fucilato di persona, era coinvolto nell’Olocausto. Dopo la guerra, la Cia e il Bnd lo avevano assunto. Dato che nessuno in famiglia credeva alle mie scoperte, ho raccolte i documenti in un volume, un libro di mille pagine ad uso privato che una mia cugina finanziò e distribuì a tutti i nostri parenti. Non è stato pubblicato fino ad oggi. Non volevo che lo fosse.

La cronaca familiare si trasforma in una sorta di genealogia del male: cosa significa scoprire che persone che abbiamo amato si sono macchiate di crimini orribili e non hanno mai sentito il bisogno di riconoscere le proprie colpe?
La risposta più ovvia riguarda il turbamento riguardo alla persona cara che improvvisamente si rivela essere un carnefice. Ma ancora peggiore è la devastazione che emerge per quanto riguarda la propria identità. La vicinanza a mio nonno, che avevo amato molto da bambino, non poteva essere sciolta, solo perché si aggiungeva una quantità incredibile di distanza e di smarrimento. Queste contraddizioni ti lacerano. Perché nella contrapposizione saltano fuori un’infinità di domande su te stesso: come avrei agito io sulla base di esperienze simili, valori simili, genetica simile e un quadro temporale identico a quello di mio nonno? Non ci sono risposte a queste domande, solo nuove domande.

Quando il suo romanzo è uscito in Germania nel 2017 ha suscitato reazioni discordanti, alcune anche molto critiche.
Passando dalla cronaca familiare, su cui si basa, al romanzo, posso dire che l’opera narrativa ha trasferito queste domande, che un tempo avevo posto a me stesso, alla genesi della Repubblica Federale: come ha potuto un intero Paese essere costruito come una società civile democratica quasi esemplare da persone come mio nonno, ma anche da milioni di altri uomini moralmente screditati in maniera analoga? Come è stato possibile? E quale prezzo è stato pagato per questo? Per il romanzo ho usato esclusivamente eventi storici documentati, ma in gran parte sconosciuti, spesso incredibili, in cui mi sono imbattuto nel corso dei miei dieci anni di ricerche familiari. E ho inventato dei protagonisti molto simpatici, intelligenti, capaci di amare, che si fanno largo in questa follia. Solo persone normali. Questa miscela ha polarizzato il pubblico tedesco.

A più di settant’anni dalla sconfitta del nazismo il Paese fa ancora così fatica a specchiarsi nel suo passato?
No, non è questo. In un certo senso i tedeschi sono campioni del mondo nel fare i conti con il passato. Per mezzo secolo, sono stati molto orgogliosi del modo esemplare in cui hanno affrontato i crimini che erano stati perpetrati nel Paese e della grande indignazione con la quale hanno condannato i nazisti. Ma questi nazisti, che sono stati pubblicamente rigettati come criminali, sembravano venire dalle profondità dello spazio. Erano, in qualche modo, degli «alieni»: vale a dire, o i personaggi più noti del Terzo Reich o i relativamente pochi assassini di massa, che avevano operato soprattutto nei lager, che furono catturati. Difficilmente si è permesso che si arrivasse a scavare nelle famiglie normali. Il nonno non era un nazista è il titolo di un celebre libro del sociologo Harald Welzer. Dimostra che la popolazione tedesca crede in gran parte che i propri antenati fossero dalla parte della resistenza. Molti se lo augurano, incoraggiati anche dal lungo silenzio delle famiglie, ma è una grottesca distorsione dei fatti. Ed è contro questo fenomeno che prende posizione Figli della furia.

Tra i motivi alla base delle critiche il fatto che tra i personaggi del libro è difficile tracciare una linea netta tra «bene e «male»? Si ha l’impressione che tutti mentano e tradiscano per tornaconto personale e si trasformino in aguzzini se da questo possono trarre benefici.
Questo è il difetto dell’essere umano. Tutti portiamo il cielo e l’inferno dentro di noi allo stesso tempo. L’arte dell’inganno e dell’autoinganno è una delle grandi conquiste dell’evoluzione umana. È facilissimo separare i nazisti da noi stessi presentandoli come bestie, assassini freddi e psicopatici. Ci permette di non lasciarli avvicinare. Un dolore molto più grande, invece, è riconoscere che il nazismo è penetrato nei più piccoli capillari dell’io senza deformarlo visibilmente. Che è presente ancora o può annidarsi di nuovo in molti di noi, per quanto possiamo sentirci persone perbene, innocenti e politicamente corretti. Questa vicinanza ai carnefici «molto umani» è ciò che volevo mostrare con il romanzo.

Tra i personaggi, il Dr. Schneider (Reinhard Gehlen) riveste una particolare importanza: il suo ruolo nella Germania di Adenauer, che avrebbe dovuto operare la denazificazione, mostra la continuità tra il Terzo Reich e la Germania del dopoguerra?
La continuità è stata resa possibile proprio da questa apparente discontinuità. È una dialettica paradossale. Gehlen era un generale che riferiva direttamente a Hitler. Che sia riuscito, dopo la caduta del nazismo, a non essere impiccato e a trasformarsi in un sedicente dissidente del passato regime, un democratico esemplare, tale da arrivare attraverso intrighi e giochi di potere a una delle massime cariche dello Stato, lo si deve agli americani che combattevano il comunismo con ogni mezzo. Hanno assunto tutti i criminali di guerra che erano a portata di mano.

Koja racconta la sua vita come se fosse una confessione, solo che al pari di altri nazisti anche lui si presenta come una vittima delle circostanze. Il lettore può essere indotto ad accettare questo punto di vista prima di coglierne tutta l’abiezione: la voluta ambiguità delle reazioni e dei sentimenti è uno degli interrogativi di fondo dell’opera?
Il cavallo di Troia della conoscenza è sempre l’empatia. E il modo migliore per fargli prendere vita è una qualche versione credibile del vittimismo. Koja ha spinto questa narrazione fino alla perfezione. I perpetratori dei crimini si discolpano in modo più convincente quando si sentono vittime e si comportano di conseguenza. Anche il carnefice più spietato, dopo tutto, prova pena almeno per se stesso. Utilizzo la modalità della finzione per portare il lettore in prossimità di qualcuno di cui teme la vicinanza. Ma che lo attrae grazie a un vittimismo seducente, maledicendo il destino. Dopo tutto, non siamo chi vogliamo o non vogliamo essere solo grazie alla nostra volontà. Ci sono anche le circostanze in cui ci troviamo a vivere. Ma non giustificano nulla. La colpa è sempre nostra. Questo vale anche per Koja, che nel corso di mille pagine illustra nel modo più affascinante, empatico e comprensibile possibile le circostanze fatali del XX secolo, con le quali vuole discolparsi.