La prima volta che ho visto Clhoë Sevigny sullo schermo era veramente una ragazzina: vent’anni, slavata ma bella, bionda, molto magra. Mi stupì positivamente quando interpretò il ruolo di una donna che si innamora di un’altra donna che però voleva essere un maschio, prova che le valse una candidatura agli Oscar come attrice non protagonista. Era una ragazza sfacciata, si imponeva in modi trasgressivi, con una sensualità androgina, lo sguardo dritto e misterioso, un po’ gattina un po’ in grado di farti l’oracolo come una Cassandra silente. Mescolava queste ambivalenze in totale purezza, che la portò, in The brown bunny, a fare un real blowjob a Vincent Gallo (suo ex fidanzato), dopo che le prime due attrici avevano rifiutato. Nella moralista America il film, e la sua prestazione, furono visti male e lei ebbe un piccolo tracollo di carriera. Con gesto superiore dichiarò ai giornali: «Se tutte le donne disinibite e libere non fossero più disponibili a fare quello che ho fatto io, al mondo non ci sarebbero più attrici».

Spiritosa, sfrontata, una specie di Charlotte Gainsbourg oltreoceano (ma la francese aveva avuto grandi maestri). Modella icona della moda newyorchese, stilosa it girl, quando ancora non si chiamavano così. Al festival di Berlino ho un piccolo scambio verbale sulla Sevigny con una critica cinematografica che mi dice avvilita: «A quarant’anni Chloë fa la moglie tradita». Come a dire non c’è più religione, né più speranza per noi donne normali che Chloë non siamo.

All’inizio abbiamo un piccolo misunderstanding perché io, invece, l’ho appena vista in un altro film in cui caratteristiche dei due personaggi non sono simili ma nemmeno così distanti. I due film, che non nominerò, sono entrambi pellicole americane che non lasciano traccia: uno è una trasposizione letteraria di un libro di culto olandese, già trasposto qualche anno fa da un regista italiano: in questo Chloë ha un piccolo ruolo in cui interpreta la moglie di Richard Gere, quando sono giovani. Più che essere un po’ trattata male non succede, si capisce che si separano e fine lì.

La seconda pellicola è una piccola produzione con un numero fisso di personaggi che ruotano e si incrociano e si incontrano al bar, a casa, a cena, a tu per tu: un film verboso. Ma è in questo Chloë, la nostra Chloë, interpreta la donna tradita, di fatto forse solo col pensiero, ma sostanzialmente una donna che percepisce il suo uomo come traditore o possibile tale. Da brava attrice, fa sì che questo sembri verosimile. Per questo la mia amica critica ha sollevato il problema stupefatta: ma se a quarant’anni Chloë Sevigny interpreta la moglie tradita, che cosa può succedere ancora? Ho risposto: «Perché le donne di successo, belle, talentuose non possono essere tradite?». Risposta affermativa.

Vedendo il film non ho mai dubitato di lei, d’altro canto, per professione è psicanalista che comunque, pure nella vita, è un ruolo piuttosto tosto, colei che ascolta e risolve i problemi degli altri, ma mi è sembrata vera e allora ho pensato a tutte le volte che da delle belle donne, amiche, ho sentito raccontare di essere tradite, che i loro compagni si fossero stufati della loro bellezza, della loro intelligenza, della loro autonomia, forse soprattutto, e che di contro avessero scelto come compagne delle donne meno impegnative, più bruttarelle magari ma più assertive, che gli permettevano di fare un po’ come volevano.

Mi sono informata: Chloè Sevigny non ha figli. Ha quarantadue anni, va per i quarantatre. Che sia questo il suo punto debole? Oppure proprio non li desidera, anche questa è una possibilità, la possibilità di una scelta autonoma, indipendente, libera senza la quale non esisterebbero al mondo donne fichissime senza figli, come lei. Evviva le donne. Tutte.