Velimir Chlebnikov a Michail Matjušin
villaggio di Alfërovo,
governatorato di Simbirsk
aprile 1911

Michail Alekseevic,
Non fosse cambiato l’intento Suo, della Sua consorte Elena Genrichovna e degli altri malintenzionati a esporre a ludibrio i mostriciattoli da me proposti, non avessero violato ogni norma la mia pigrizia, oziosità e via dicendo, proceda, allora, con la stampa! Mi sono venuto a trovare in quello stato d’animo che a tutto rende indifferenti e rovescia la prospettiva da cui si guarda al mondo, ma adesso vado sciogliendomi anch’io, come il ghiaccio al sole di primavera. Se non sono insorti ostacoli, e al Suo cuore non ripugna procedere immediatamente alla pubblicazione, non faccia altro che inviarmi un telegramma con la parola: sì!, che getterà nello sconcerto tutti i gendarmi e le autorità campagnole.
Qui dissezionano tutte le lettere fino all’ultima virgola e le lasciano ammuffire, il che non è proprio di stimolo alla corrispondenza.
Lavoro costantemente sui numeri e sul destino dei popoli come variabile numerica interdipendente, e qualche progresso c’è.
Si sarà stupito di non ricevere mie lettere, e poi avrà anche smesso di stupirsi. Ma, come vede, sono ben fornito di circostanze attenuanti.
Mando quattro lavori: Giorno di giubilo, Asparuch, La morte di Palivoda, Il dio delle fanciulle. Ho espressamente evitato di inviare poesie o La fanciulla di neve per conferire alla raccolta maggiore organicità. Per il titolo mi viene in mente La casupola degli avi, L’albero nero, La collina nera, in special modo quest’ultimo; se non avete nulla in contrario, che sia lui a campeggiare in copertina!
Le invio alcuni disegni, perché Elena Genrichovna, con il gusto e la competenza che la contraddistinguono, ne scelga due o tre: a me piacerebbe la casetta-uccello sul frontespizio, e poi una delle creature muliebri; sono lavori di mia sorella Vera, ma non saprei se sia opportuno citarla. Mi faccia sapere il prima possibile se pubblicherà o no il libro.
Un saluto di tutto cuore a Elena Genrichovna e al circolo tutto degli amanti dell’arte. Come sta Kamenskij? E il giovane artista sul quale si concentrano le Sue premure? A proposito, la mia permanenza qui, nella più ripugnante fra tutte le città, Le ha arrecato un danno materiale. Al quale, mi affretto a garantire, senza precipitarmi a dar corso alla promessa, sarà posto rimedio nel modo più accurato e preciso possibile.
Dia, ordunque, alle stampe!
I miei rispetti.
V. Chlebnikov
P.S. I manoscritti li farò arrivare a Pietroburgo a mezzo di un conoscente.
La copertina senza disegni, la più semplice possibile, con solo un serto di fiori.

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Velimir Chlebnikov,
a Michail Matjušin,
Astrachan’, aprile 1915

Caro Michail Vasil’evic,
questo è il libro stampato con maggior gusto tra tutti quelle delle edizioni Žuravl’. È un’ottima cosa che non ci siano pagine superflue e che la controcopertina sia senza annunci pubblicitari: è qualcosa che rovina sempre i libri.
Ne ha assai patito il mio La nuova dottrina della guerra. Da Filonov come scrittore mi aspetto molto; e anche in questo libro ci sono passi tra i migliori che siano stati scritti sulla guerra.
Insomma, mi ha allietato constatare nel libretto l’assenza di qualsiasi venatura di mercantilismo. Non meno bene suona «La fioritura universale» in copertina.
Mi piace molto il disegno dell’arciere delle caverne, del cervo e del cane dilaniati dalla propria furia e come mai nati, come pure quello del cervo cauto e intimidito. Io continuo a elaborare i miei numeri, ma per il momento non c’è niente di nuovo, solo un grande nitore a esaminare gli eventi con intervalli di 317 anni.
Tra l’altro sono riuscito a trovare un modo sintetico per esporre i calcoli, per cui il manoscritto sarà presto pronto.
Continuo a studiare il Diario di Marija Baškirceva. Mi offre utili spunti per l’interpretazione dei sogni. Aspetto maggio.
Se vuole pubblicare prima di maggio una tavola litografata (4-5 pagine) delle invasioni a 317 anni di distanza, mi scriva, e gliela manderò. Se per qualche motivo non si può, non fa nulla.
A proposito, c’è qualcuno che mette in giro la voce che le mie opere siano già state vendute a Krucënych. Non c’è una parola di vero.
Il Suo V. Chlebnikov

Per me esistono 3 cose: 1) io; 2) la guerra; 3) Igor’ Severjanin?!!
Quest’inverno è stato un gran brutto periodo: in mezzo alla folla, ma in assoluta solitudine. Astrachan’ è solo una subdola città mercantile.

di MARIO CARAMITTI
Nel mondo ruggente e incandescente dei futuristi russi tutti sono tutto e tutti fanno tutto: poeti e artisti, in primis, ma anche musicisti, scenografi, registi, editori, impresari di se stessi, performer, scandalisti, persino illustratori-amanuensi e tipografi. Lo spirito del raggruppamento d’avanguardia è espresso alla massima potenza da questa confusione e intercambiabilità dei ruoli, un magma che fa da poderoso collante senza interferire con l’emergenza del talento individuale.
Quanto al libro, assieme all’arte borghese è rigettata, in un convinto pre-Ottobre, anche ogni logica di profitto. La rivoluzione delle forme poetiche è a costo zero, autofinanziata, autoprodotta. Tutto si mette e si fa in comune, anche fischi e insulti sono moneta di scambio, mentre la presunzione di gloria governa ego ciclopici. Tuttavia, alla fin fine qualcuno i soldi li mette, e chi è davvero un genio e chi no è dominio di tutti, tutti lo sanno perfettamente.
Geni, tra gli avanguardisti puri, sono solo Majakovskij e Chlebnikov e, quando si arriva al punteggio d’Amburgo, per dirla con Šklovskij, vince sempre Velimir Chlebnikov. Tra quanti, partecipi dello spirito e del gioco, mettono i soldi, c’è il musicista e pittore Michail Matjušin, il quale, anche a uso della moglie poetessa e pittrice Elena Gurò, organizza, nella sua grande dimora in legno sulla via Pesocnaja (oggi Museo dell’avanguardia pietroburghese) la casa editrice Žuravl’ (la gru). Lì, tra il 1910 e il 1918, allestirà una ventina di volumetti, esili per formato e tiratura, tra i quali i più celebri almanacchi dell’avanguardia letteraria russa, dal Vivaio dei giudici al Parnaso ruggente, illustrati da Malevic, Larionov, Gonciarova.

Le due lettere riportate nella pagina accanto, circoscrivono il periodo più intenso dell’attività editoriale di Matjušin e quello più sorprendente della attività poetica di Chlebnikov. Il giovane poeta, inventore, con Krucënych, della «parola in quanto tale», che fa esplodere l’anima dei fonemi e il ventre della morfologia in leggendari componimenti come Bobèobi si cantavano le labbra o Podere di notte, gengiscaneggia! ha scavato nella pietra il solco del processo letterario senza mai uscire da un guscio quasi autistico di indifferenza assoluta. Per ore, sedeva in silenzio in mezzo a una compagnia di letterati strepitanti, oppure si interrompeva a metà di una declamazione: «eccetera, eccetera…». Dopo la sua automitizzante esistenza randagia e scalza, una morte senza senso lo ha colto in una tra le lande prive di tutto della Russia devastata dalla guerra civile.

Tra le maggiori rarità librarie
Nel 1911, il ragazzo di provincia, affacciatosi appena nel mondo rutilante della Pietroburgo belle époque, era già stato accolto, grazie al suo talento, nell’ambiente futurista degli albori. Nei confronti di Matjušin, intellettuale già largamente affermato e di venti anni più anziano, Chlebnikov mostra ogni timidezza e reverenza. Chiave espressiva della sua lettera – scritta da un remoto villaggio nella regione dell’odierna Ul’janovsk, dove svernava con la famiglia – è l’ostentazione di disinvoltura e sfarfallante ironia che tradisce impaccio, sudditanza psicologica e incertezza circostanziale. Il tutto motivato dall’ardente, tradizionalissimo desiderio di vedersi pubblicato.
Il volume che Chlebnikov propone è un concentrato della componente in prosa – narrativa e drammaturgica – del côté ucraino e meridionale del suo panslavista e primitivista scavo nell’essenza diacronica della parola, ciò che ne fa il più atipico e improbabile dei futuristi, per il quale la rottura delle coordinate spazio-temporali si prospetta come una loro estensione e gli unici confini dell’arte sono l’eternità e l’universo.
Matjušin non lo pubblicherà, ma nei quattro anni successivi il sempre più affermato Chlebnikov sarà un nome imprescindibile per tutte le miscellanee di Žuravl’, a cominciare dalla luttuosa I tre, che riunisce Chlebnikov, Krucënych e Elena Gurò, nel frattempo deceduta, con copertina di Malevic, fino alle celeberrime Il giardino dei giudici II e Il parnaso ruggente, una delle maggiori rarità librarie russe, diffuso in non più di dieci copie prima del sequestro della tiratura; del 1914 è il primo testo interamente chlebnikoviano, La nuova dottrina della guerra, citato nella seconda lettera.

Le pubblicazioni di Žuravl’ sono modelli esemplari dell’idea futurista di libro, oggetto di cura amorosa, artigianale, individuale, strappato quasi per intero al dominio gutenberghiano perché la sua idea approdi, in una fase ulteriore, alla condivisione dell’oggetto. La carta è rozza, ruvida, anche da pacchi o, come per il primo Giardino dei giudici, carta da parati stampata sul retro, con tecniche che vanno dalla litografia al rudimentale ciclostile, muovendo spesso dal presupposto teorico dell’autoscrittura, delegata con piacere ai compagni artisti, ma sempre a prescindere dai caratteri tipografici, sostituiti dalla calligrafia del poeta o di chi a lui contiguo.
Per la verità, il libro di Chlebnikov più oltranzista in termini di autoscrittura esce da un’altra casa editrice, in tutto affine per intenti, transmentale già nel nome, EUY, gestita da Aleksej Krucënych, al quale in una lettera del 1913, invocando già la collaborazione grafica di Pavel Filonov, Chlebnikov delinea prospettive che si avvicinano alla coautorialità: «Tanto Lei che lui avrete licenza di cambiare il testo a vostro piacimento, tagliandolo, modificandolo, dando maggior forza a punti opachi». E nella raccolta di versi dal titolo arcaizzante Regesto, da lui interamente illustrata, Filonov si prende senza remore la libertà concessa, disegnando praticamente ogni lettera, con iniziali animate, vocali fiorite, consonanti svolazzanti nell’interlinea.

Nella lettera del 1915 stentiamo a riconoscere il tono di Chlebnikov: quattro anni prima, a tal punto sembrava caduto dalla luna da sbagliare il patronimico del destinatario. Il nuovo Chlebnikov, invece, è perfettamente consapevole del suo ruolo, e del suo genio, non esita a rimproverare Matjušin, le lodi non mancano di condiscendenza, propone i suoi libri non più da trepidante piazzista, ma da pari a pari: prendere o lasciare. Matjušin, certo, resta l’unico editore dell’ambiente avanguardista che abbia una pur minima statura commerciale, e non lesina vaglia urgenti perché Chlebnikov possa riaffacciarsi a Pietroburgo.
Spunto per la lettera è il ricevimento da parte di Chlebnikov, nella lontana Astrachan’, sua città natale, di un libro edito da Žuravl’’ che non poteva non essergli caro e per la cui pubblicazione si era verosimilmente speso: la Cantaltilena della gemmatura universale, primo e unico esperimento poetico di Filonov, la cui unità di spirito e d’ispirazione con Chlebnikov, nell’ottica di un simultaneismo fondato sull’assimilazione visionaria e metafisica dell’intero scibile e del non conoscibile, risulta ancora più vistosa quando il pittore imita sul suo terreno il poeta, sfoggiando due viscerali neologismi già nel titolo, che è in realtà una sorta di traduzione transmentale della propria tecnica e teoria pittorica della fioritura universale, già presente in copertina come una sorta di marchio editoriale. Per la verità la poesia di Filonov, accompagnata da quattro splendide tavole, non è puramente epigonica, e implica una dimensione performativa e musicale che è forse ciò che più manca a Chlebnikov.

In quegli anni, per lui come per tutti i futuristi russi, il tema dominante è la guerra, vissuta con sempre più lancinante e rabbioso antimilitarismo, in diametrale antitesi ai confratelli italiani. Alla guerra è dedicato il poema di Filonov e anche il libro di Chlebnikov appena pubblicato da Matjušin, Battaglie 1915-17. La nuova dottrina della guerra, dove il pacifismo è in realtà solo ancillare rispetto al dedalo numerologico-profetico innescato dallo sconvolgimento planetario.

La misura del mondo
In entrambe le lettere risalta la passione per l’indefessa e certosina esplorazione dell’universo delle cifre, specchio modellizzante dell’evoluzione del genere umano, chiave per i segreti del tempo ma, soprattutto, ricerca di una semantica preverbale e di una sintassi alternativa onnicomprensiva. È evidente che per Chlebnikov i calcoli infiniti sono di per sé gesto creativo e gesto artistico, per il quale sonda specifiche forme espositive, e la cui compiutezza è prospettata nella pubblicazione.
Sarà appunto Matjušin, come proposto, a stamparne l’ulteriore evoluzione, che si concretizza nel 1916 nel più articolato testo numerologico chlebnikoviano della prima fase, Tempo misura del mondo. Un libro a tutto tondo, sebbene solo di numeri: «I soldati giapponesi di guardia sulla principale arteria della Manciuria Meridionale assommavano a 617 + 17 uomini = 317 x 2 = 1911. Nella guerra franco-prussiana per ogni uomo ucciso sono occorse 365 pallottole». L’impressione è che la maniacale ricerca delle corrispondenze arrivi all’azionismo delle masse numeriche, alla teatralizzazione degli idolizzati 317 e 365, sebbene tra i sentimenti contrastanti che genera ogni autentica, per quanto stravagante, polisemia, resti valida l’ammirazione per lo straordinario afflato rabdomantico, di vibrazione universale, come pure il facile gioco alla profezia, cui, nel mare magno, è stato ascritto un po’ di tutto, dalla rivoluzione d’Ottobre fino a Internet e all’11 settembre.

La traduzione delle lettere è di Mario Caramitti