Sono passati sei mesi dal ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo (sette dall’annuncio, dato la sera del 14 agosto, che le relazioni diplomatiche con l’Egitto sarebbero riprese a pieno titolo) e mai come ora il rischio che la tragica vicenda di Giulio Regeni sia archiviata, che diventi una questione di memoria senza passare dalla verità e dalla giustizia, è un rischio reale. A renderlo tale contribuiscono sia la situazione italiana sia quella egiziana.

Dell’impegno delle istituzioni italiane a ottenere verità e giustizia per Giulio non si è parlato nella campagna elettorale che, d’altra parte, del resto del mondo si è accorta solo nella misura in cui il resto del mondo si è presentato alle nostre porte.

Uno sguardo oltre confine (o meglio, al confine) gli italiani lo hanno gettato soltanto perché le tragedie che si consumano a sud e a sud-est del continente europeo hanno portato sulle nostre coste migliaia di esseri umani in fuga dalla guerra, dalla persecuzione e dalla fame. E si è trattato, da parte di molti, non di tutti, di uno sguardo ostile, se non di odio vero e proprio.

Del ruolo dell’Italia nel mondo – degli interessi materiali, ma anche dei valori di cui potrebbe essere portatrice – invece non si è discusso affatto, a conferma di come la politica estera rimanga tuttora un ambito relativamente opaco, sottratto in buona parte al controllo democratico e di un’opinione pubblica poco informata e poco interessata. In una situazione come questa è difficile persino trovare il contesto nel quale collocare la campagna di opinione per la verità e giustizia per Giulio Regeni.

Se questo è lo scenario in Italia, occorre tenere conto anche di cosa accade in Egitto, al quale il rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International, presentato al pubblico poche settimane fa, dedica un capitolo piuttosto corposo, da cui emergono gli abusi sistematici compiuti dall’apparato statale.

Vi si parla della diffusione della tortura, delle sparizioni forzate di centinaia di persone e di decine di esecuzioni extragiudiziali (comprese quelle di coloro che secondo il Ministero dell’Interno sono stati uccisi nel contesto di scontri a fuoco con le forze di sicurezza ma che in realtà si trovavano già nelle mani dello Stato).

Si aggiungono poi gli arresti arbitrari (centinaia di persone prelevate a casa o nel luogo di lavoro sulla base della appartenenza, reale o presunta, ai Fratelli musulmani) e i processi iniqui (ancora una volta, numerose persone condannate, in alcuni casi anche a morte, al termine di processi collettivi profondamente viziati).

In questa situazione doppiamente sfavorevole alla ricerca di verità e giustizia per Giulio, neppure le notizie che circolano, sempre le stesse, aiutano. Vengono riciclate letture poco credibili della vicenda: il sequestro sarebbe opera di chi vuole guastare i rapporti fra due grandi paesi – ha sostenuto ancora di recente un esponente egiziano (come se il problema vero non fosse quello dell’uccisione del nostro concittadino ma quello della presunta «strumentalizzazione» di questa).

Si ritira fuori la fantomatica «pista di Cambridge», come se ci fosse una specie di verità alternativa, da cercare in Inghilterra e non in Egitto (altro è, evidentemente, come giustamente fa la procura di Roma, cercare ovunque, anche a Cambridge, elementi utili a ricostruire la sparizione e la morte di Giulio … che però è avvenuta al Cairo, non altrove).

E rispuntano persino le insinuazioni sulle reali motivazioni del ricercatore, che avrebbe ficcato il naso in questioni che non lo riguardavano (e che dunque se la sarebbe cercata).

Vale la pena notare come l’accusa di essere una spia sia la stessa rivolta dalle autorità iraniane contro Ahmad Djalali, anche lui ricercatore, formatosi in Italia. Ed è un’accusa che riflette una visione oscurantista, per la quale studiare, fare ricerca e volere, in definitiva, conoscere il mondo non è un merito ma una colpa.

Sette mesi fa, quando il rientro dell’ambasciatore è stato deciso, abbiamo detto subito che ci sembrava una mossa sbagliata. Al di là delle eventuali buone intenzioni italiane, preoccupavano le reazioni egiziane: la crisi è passata, si è detto e ripetuto da più parti al Cairo. La nostra speranza era di sbagliarci, di avere torto. E anche se, con il passare del tempo e le condizioni che mutano in peggio, si rafforza, purtroppo, l’impressione di avere avuto ragione, di esserci sbagliati sul ritorno dell’ambasciatore noi lo speriamo ancora.

Così come speriamo che la ricerca di verità e giustizia per Giulio sia un impegno prioritario per chiunque, indipendentemente dal colore politico, sarà presto chiamato a governare il nostro paese. E che, chiunque sia a sedere a Palazzo Chigi e alla Farnesina, si trovi il modo di fare capire alle autorità egiziane che la crisi non è passata, che fino a che i colpevoli della barbara uccisione del nostro giovane concittadino non saranno stati processati e condannati tra Italia ed Egitto non potrà essere business as usual.

*Presidente di Amnesty International Italia