Nell’opera di Christo Vladimirov Javacheff (1935-2020) e Jeanne-Claude Denat de Guillebon (1935-2009) coesistono due operazioni incompatibili: da una parte una sfida all’impossibile, poetica quanto suicidaria, impacchettare ovvero un monumento, un’architettura, un paesaggio o, per citare il suo ultimo intervento in Italia di grande successo (1.200.000 visitatori), il lago Iseo (The Floating Piers, 2016). Dall’altra parte, l’estenuante trafila sulla fattibilità e la realizzazione del progetto: trovare i fondi necessari; ottenere i permessi e le licenze; convincere municipalità, politici, amministratori, cittadini; studiare l’impatto ambientale e una copertura dell’oggetto prescelto che non lo danneggi; coordinare squadre di ingegneri, tecnici, pompieri, costruttori, trasportatori, imprese tessili, mediatori; rendere l’opera fruibile al pubblico per 14 giorni; smontare le impalcature lasciando l’oggetto così com’era e, infine, riciclare il materiale utilizzato. Tra queste due operazioni vi è un abisso temporale: se l’intuizione è fulminea come un’immagine mentale, il suo farsi può durare anni se non decenni.
Il progetto del Pont Neuf ad esempio, al cuore di Paris! – la bella mostra dallo scialbo titolo appena aperta al Centre Georges Pompidou di Parigi (fino al 19 ottobre) – necessita di dieci anni di negoziazioni cominciate nel 1976. Una durata incompatibile coi suoi tipici quattordici giorni di vita: 22 settembre-6 ottobre 1985. Una durata effimera bilanciata dal ricordo indelebile di tre milioni di visitatori.
Con i loro anti-monumenti del tutto autofinanziati grazie alla vendita di disegni e collage, Christo e Jeanne-Claude hanno sempre rifiutato qualsiasi sovvenzione da parte di musei, gallerie, fondazioni, privati così come qualsiasi commissione. Nessun biglietto d’ingresso: le loro installazioni sono gratuite, non si possono acquistare né commercializzare. Un’indipendenza rivendicata con ostinazione, come dimostra la recente vicenda di Over the River nel gennaio 2017. Christo rinuncia a realizzare una copertura argentata sospesa sopra il fiume Arkansas in Colorado di 67 km non a causa delle proteste che accompagnano spesso i suoi interventi ma non appena realizza che la terra federale ha un nuovo proprietario: il presidente Trump. Perde così, sull’unghia, 15 milioni di dollari già investiti di tasca propria, oltre ad anni di lavoro. L’idea risaliva proprio al 1985, osservando i 40.000 m² di tessuto del Pont Neuf specchiarsi e riluccicare nell’acqua della Senna.
Paris! ripercorre ogni fase di questo progetto: Christo che gira per il quartiere del Pont Neuf presentandosi e spiegando pazientemente cosa ha in mente; la progettazione di un’impalcatura che sostiene il rivestimento; la realizzazione dell’opera fino alla sua inaugurazione. Le pieghe ne fanno un’opera barocca e sensuale. Della scultura pubblica tradizionale resta solo la dimensione monumentale, spinta al parossismo. L’architettura diventa così una scultura colossale.
Questa spericolata poetica visionaria che investe (e riveste) ogni progetto di Christo, sin da piccolo soprannominato dai famigliari Don Quixote, coesiste con un iter amministrativo che sfiancherebbe il burocrate più cipiglioso. La mostra parigina mostra bene la coesistenza di questi due aspetti: nella prima sezione vediamo le primissime opere, quadri-oggetto e sculture di matrice surrealista con richiami al bondage e a una violenza risolta nel trattamento delle superfici – un’estetica misérabiliste che, attraverso un uso sperimentale della lacca, dialoga con la materia di Dubuffet. Nella seconda, incentrata sul Pont neuf, siamo confrontati a una sfilza di 87 lettere e documenti giuridici. Dalla scultura ai tempi della neo-avanguardia passiamo all’archivio dell’arte concettuale.
A segnare la transizione il documentario di Albert e David Maysles (Christo in Paris, 1990) che ricostruisce l’intera vicenda, con incontri rimasti alla storia come quello col sindaco di Parigi Jacques Chirac. Lo vediamo dosare sapientemente la langue de bois, confessare all’artista le sue perplessità per le ricadute sul consenso politico che un progetto così inusuale può avere con le elezioni amministrative alle porte. Un gollista navigato e stratega preoccupato solo dell’incidenza che l’opera di Christo avrà sulla sua carriera politica. Ma poi vediamo uno Chirac raggiante il giorno dell’inaugurazione ufficiale del ponte impacchettato, che abbraccia l’artista e gli dice pacioso che lui ha sempre creduto in questo progetto.
Concepita assieme a Christo, nel frattempo scomparso all’età di 85 anni, installata da mesi e mai aperta a causa dell’emergenza sanitaria, la mostra del Pompidou non è solo una documentazione sugli anni parigini (marzo 1958-settembre1964) ma un dovuto omaggio. Giunto a Parigi a 23 anni, Christo non realizza solo ritratti della borghesia locale, ma trova la compagna inseparabile – nata lo stesso giorno, il 13 giugno 1935 – con cui ha costituito un sodalizio umano e artistico durato oltre cinquant’anni, così come quella spinta a progettare l’impossibile. O perlomeno, se non l’impossibile, quanto non era pensabile nell’Accademia delle belle arti di Sofia. Qui si studiava l’arte di propaganda sovietica, e l’unico sbocco lavorativo era la piccola fabbrica di tessuti del padre. Una spinta che li porterà a New York, dove diventa cittadino americano nel 1973, e dove dialogherà con l’estetica modulare della scultura minimalista. Ma questa è un’altra storia, accennata en passant nella sala più defilata di Paris! con gli Store Fronts, in attesa che, il 18 settembre 2021, sia impacchettato l’Arco di trionfo. Scartata l’École militaire, l’idea risale al 1962.
C’è una ragione stringente per tornare a vedere e riflettere su Christo oggi. Penso all’animosità che hanno sempre sollevato le sue azioni, come se, sottraendo alla vista i monumenti per sole due settimane, ne rivelassero il funzionamento segreto. Un monumento messo in un involucro come un morto, vestito a lutto, sinistro o forse impotente – una castrazione simbolica. Una seconda morte di statue che nessuno degna di uno sguardo finché non sono dissimulate sotto agli occhi di tutti. Un’operazione che svela la natura funerea della nostra arte pubblica ma anche la natura animistica che attribuiamo alle immagini, come se la statua, così coperta, potesse soffocare.
È il caso del Reichstag di Berlino nell’estate 1995: non un packaging d’autore ma una velatura del passato, una sottrazione che di colpo lo rendeva visibile, come ha ricordato Andreas Huyssen (Monumental Seduction: Christo in Berlin, 1996). Più fredda l’accoglienza a Milano nel novembre 1970 in occasione delle celebrazioni del Nouveau Réalisme orchestrate da Pierre Restany. Christo impacchetta il monumento a Vittorio Emanuele II a piazza del Duomo e la statua di Leonardo da Vinci a piazza della Scala, entrambi visibili simultaneamente dal centro della Galleria, utilizzando un tessuto in polipropilene e una coda rossa. Il primo, debitamente transennato, dura solo due giorni a seguito delle proteste monarchiche, il secondo è bruciato dopo una settimana.
Oggi che torniamo a interrogarci sul destino dei monumenti più controversi della nostra storia, vediamo con sguardo nuovo i sei decenni di attività di Christo. È a Roma, al parco di Villa Borghese nell’ottobre 1963, che impacchetta per la prima volta una statua. Molti lo prendono per uno dei tanti interminabili restauri in quella che Lucio Fontana chiamava, con perfidia, la città rotta