«Chisse femmene!» esclama Ciccio Ingravallo che «una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto ‘latino’, benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne». Conosceva forse le donne Ingravallo, ma la donna ? Lui, preso d’incanto per Liliana Valdarena in Balducci, la donna di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda.

Liliana, da Lilium, e vale dire: con gli attributi del giglio. La fragilità della sua purezza, la vaga leggerezza e come di petalo le trasparenze candide della sua epidermide. Ma una purezza, quella di Liliana, che alimenta un contesto sentimentale di inconfessabili filame e pericolose trasposizioni. Era fermo convincimento del dottor Ingravallo (comandato alla mobile, funzionario della sezione investigativa) «che bisognasse ‘riformare in noi il senso della categoria di causa’ quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi».

Liliana, un intreccio di relazioni ribadite per allusioni e cenni e per intese non svelate o appena dette. Connivenze ad un tempo attentamente curate e non agite, modellate da lei con minuzia, ma in astratto, come fantasticate. E segreti patti nati da emozioni appassionatamente perseguite e poi costantemente trattenute.

Intime, dominanti, fatali emozioni alle quali Liliana si affida e che amorevolmente impone.

Che altri le vivano, grazie a lei, quelle passioni nell’integrità d’ogni conseguenza, che sarà felice se è la sua sollecitudine a suggerirle, a destarle vive nell’animo delle sue giovani prescelte e saranno poi i suoi buoni uffici a realizzare. E Ingravallo, in contemplazione di Liliana, calamitato dalla sua purezza intermediaria simile a quella dell’aruspice che congiunge, affida, auspica: divinando combina le vite degli altri per animare la propria. Fin quando Liliana intatta, protesa ad augurar bene, viene recisa, elisa nella carnalità che lei per prima si interdiceva.

Esplicitato da Gadda come fatto o epicentro della narrazione, anche quel tratto floreale ha una interna connotazione dove è da riconoscere una ascendenza classica, si direbbe ovidiana del mito. Liliana è giglio tramutato. La descrizione di Liliana viva e di Liliana morta, equivale alla descrizione del giglio sullo stelo e del giglio tagliato e abbattuto a terra.

Resta da dire che Liliana e Ingravallo non solo tra loro, ma ciascuno per sé, si rappresentano casti. Il tratto saffico di Liliana appare come un viatico, un buon augurio o un auspicio per le sue protette, volte ad amori fecondi della maternità che a lei è negata.

Gadda con latente ferocia dileggia e poi, nel corpo fasciato di raso e di seta di Liliana assassinata, uccide il desiderio inappagato di maternità, e lo scuote di singulti, lo costringe in rantoli. «Mio desiderio, scrive Gadda nel marzo del 1928, di essere romanzesco non nel senso istrionico, ma con fare intimo e logico. Orgasmo inespresso emanante dal racconto. Non basta lo schema della tragedia pura e semplice. Occorre complicarla romanzescamente». Complicazione, intrico, viluppo nel personaggio e nello scrittore.

Pietro Citati ha osservato che una speciale «novità del Pasticciaccio riguarda la stessa figura del narratore classico che cede evidentemente le parti ad un ‘altro’ narratore; un scrittore plebeo che non si identifica fisicamente con Gadda, ma quel narratore è anche lui, o almeno una trasposizione genialmente involgarita della sua natura, in chiave sia turpe che bonaria».