Dieci anni che hanno continuato a sconvolgere il mondo dell’informazione. Tanto è il tempo trascorso da quando, una mattina, arrivò in redazione la notizia della morte di Franco Carlini. A comunicarla un allora redattore capo che non riusciva quasi a parlare. Conosceva Franco da molto più tempo di chi scrive. Erano stati tra i fondatori del manifesto. Uno a Genova, l’altro a Roma. Uno un ricercatore, l’altro un tecnico informatico. Uno appassionato di biologia, l’altro di poesia. Uno in redazione, l’altro, Franco si era imbarcato in un’altra avventura al di fuori del «suo» giornale.

AVEVA RACCOLTO attorno a sé giovani uomini e donne che avevano cominciato a fare informazione usando la Rete, il territorio che per primo al manifesto aveva segnalato come un mezzo, un habitat tecnologico, sociale, economico e politico che avrebbe rivoluzionato la comunicazione sociale. Quello che non poteva certo immaginare era la profondità delle trasformazioni che Internet avrebbe veicolato. Nella produzione, nel consumo, nel fare informazione, nel mestiere di giornalista.

A DIECI ANNI DI DISTANZA, domani al palazzo Ducale di Genova quei compagni di avventura assieme ad altri giornalisti, saggisti proveranno a sbrogliare la matassa Giornalismo, innovazione, democrazia all’interno del convegno Chips&Salsa organizzato per ricordare Franco Carlini (https://chipsandsalsa.it). Il titolo non è peregrino. Chips&Salsa era il nome della rubrica che teneva al manifesto, trasformata poi in un inserto settimanale fino a diventare un blog redatto e amministrato dallo stesso Franco. E non sono neppure casuali i temi scelti dagli organizzatori. Tutti aprono «finestre» su argomenti che gli stavano molto a cuore.
Il giornalismo di Franco era rigoroso fino all’esasperazione perché credeva che la discussione nell’agorà servisse a far emergere la verità dal mare tumultuoso del confronto tra le opinioni. In questo era un illuminista radicale, specialmente quando illustrava il suo modello di democrazia deliberativa, anticipando di anni i giuristi e i filosofi della politica statunitense che vedono nella libera discussione tra diversi un argine al populismo mediatico.

IN SOLITARIA, come quando saliva in montagna, si era avventurato in un continente che metteva in discussione il modo di fare informazione. Per anni aveva svolto un discreto ma fondamentale lavoro pedagogico nel raccontare la «rivoluzione del silicio. Nel suo irrequieto vagabondare si era però imbattuto in esperienze che mettevano in discussione il mondo dei media. Internet era lo spazio che rendeva possibile la comunicazione dei «molti ai molti». L’esatto opposto di quel rapporto gerarchico della comunicazione dell’«uno ai molti» che contraddistingueva e contraddistingue i media tradizionali.

SEGUIVA COSÌ con curiosità, attenzione e rispetto le esperienze comunicative di «movimento», anche se movimentista non lo è mai stato. Era cresciuto alla scuola di chi voleva che gli esperti fossero anche «rossi», anche se poi era diventato incline a preferire la figura foucaultiana dell’intellettuale specifico, cioè di chi usa il sapere disciplinare per comprendere e cambiare il mondo. E questo amore per la chiarezza lo distillava nei suoi articoli su una notizia che investiva l’antropologia, la biologia, la fisica, la neurologia. Era affascinato dall’attitudine hacker che vuol aprire la scatola nera della scienza affinché tutti possano apprendere conoscenze considerate robe per specialisti. Ma degli hacker amava anche la passione per la condivisione.

NEI SUOI VAGABONDAGGI in Rete si era imbattuto negli scritti di Yochai Benkler. Aveva presentato, con una introduzione, l’edizione italiana de La ricchezza della Rete. Discutemmo a lungo del libro, esprimendo punti di vista opposti sulla sharing economy. Il suo punto di vista era netto: l’economia della condivisione era la semplificazione chiara di come si potesse uscire dal capitalismo senza seguire strade già battute. Chi scrive vi vedeva l’esemplificazione di una nuova accumulazione primaria. Rimanemmo sulle nostre posizioni. Lui però aveva colto un elemento importante quando citava il citizen journalism come esempio di una possibile democrazia radicale nell’informazione, a patto che i «cittadini» facessero proprie quelle poche regole che distinguono un buon giornalista da un populista mediatico. È questa la semplicità difficile a farsi che caparbiamente occorre provare a tradurre in progetti e sperimentazioni editoriali.