Si può ammirare una poesia di cui non si accettano le idee? Sì, rispondono da tempo immemorabile gli studiosi italiani”. Così scriveva Montale nel 1951 in una recensione al volume P. B. Shelley di Elio Chinol, riassumendo, subito dopo, le controverse opinioni (sì/no) sul dibattuto problema ‘Shelley poeta’, opinioni formulate da una élite di letterati e critici inglesi, che includeva Matthew Arnold e I. A. Richards, T. S. Eliot e F. R. Leavis, C. S. Lewis e Herbert Read. A dirla in breve, si distingueva, con maggiore o minore adesione, sulla possibile convivenza di “credenza emotiva” – quella che si chiede all’artista – e “credenza intellettuale o filosofica”, una dipendenza, quest’ultima, anche da un pensiero ideologico (nel caso di Shelley incoerente e puerile, secondo Eliot) che metteva a rischio il valore e l’integrità della poesia e, di conseguenza, una sua duratura resistenza al tempo. Nella “selva confusa” di valutazioni in ambito inglese, Chinol arrivava a mettere “ordine”, senza tuttavia farsi mediatore di comodo fra opposte tendenze.

“Credo – continuava infatti Montale – che la necessità di mantenersi su una via di mezzo sia scaturita spontaneamente dal suo spirito e sia dovuta al maggior rigore teoretico che la nostra tradizione gli ha insegnato”. E andava al quid di una impasse che, a livello di maturità critica e di strumenti necessari per catturarla, l’autore (laureatosi con Nicola Abbagnano, e poeta esordiente) risolveva con autorità e competenza filosofica: “Tre sono le più importanti conclusioni del Chinol. Non esiste uno stacco netto fra il giovane Shelley discepolo di Godwin, ateo e libertario, e lo Shelley maturo, platonico. Il platonismo di Shelley è un platonismo intermittente, sui generis, e non ha nulla di rigorosamente filosofico. Esistono poesie o parti di poesia in cui Shelley è puramente poeta, e almeno in queste il problema della ricevibilità del suo messaggio è assolutamente fuor di luogo”. E faceva il caso della lirica Mont Blanc, letta da Chinol con la lucidità e la concretezza che lo distinguevano. “Sembra poco ed è tutto”, concludeva Montale. Si congedava così il primo saggio monografico in Italia dedicato a Shelley, cogliendo il senso di un contributo che, se si esclude il lavoro di Praz e Cecchi, andava a fondare i primi cardini di una tradizione italiana di studi di Anglistica.

Al di là della delicata questione del “platonismo” di Shelley, che Chinol sembrava allora assestare, ai fini di un giudizio sulla poesia egli consigliava di “tenere i nervi a posto e di non perdere l’equilibrio”, evitando incondizionate esaltazioni e totali condanne, riconoscendo a Shelley vertici molto alti come pure cadute irreparabili. Certo, sosteneva, molte poesie non sono che improvvisazioni ed esercizi, buttati giù senza cura e pretesa; così come quelle opere che meritano seria considerazione presentano spesso difetti, e talvolta gravi. Shelley “non era dotato né per il dramma né per il poema narrativo, aveva deficiente il senso architettonico, poteva spesso lasciarsi portar via dall’impulso fino a perdere il controllo, restare sentimentalmente irretito in falsi e convenzionali schemi psicologici, e avvilupparsi e confondersi, a causa della sua grande esuberanza verbale, in labirinti di parole”. Ma quando si sia liberato il setaccio da ciò che appare caduco, “cosa dobbiamo dire di opere come il Prometheus Unbound, l’Epipsychidion, l’Adonais e The Triumph of Life? Nessuna forse è perfetta, eppure è assurdo negare che vi sia in tutte la pura impronta di ciò che si può, senza nessuna rettorica, chiamare ‘Genio’”. Chinol qui si rivolgeva anche ai Modernisti, Pound e Eliot, ai quali ricordava che, in nome del loro “senso storico”, bisognava comprendere anche valori diversi da quelli della poesia contemporanea (il grande “talento”, diceva Eliot, modifica la “tradizione”, proiettandola sempre in avanti). Cosa che nel caso di Shelley essi avevano dimenticato.

Shelley, il “Cuor dei Cuori” dei Romantici inglesi aveva goduto di facile fortuna in Italia, grazie al “mito” della sua morte in naufragio nel Golfo di La Spezia, nonché di poeta intellettualmente ribelle, libertario, e addirittura, in alcune manifestazioni (il Prometeo Liberato), titanico: un anticonformista nella vita, nelle idee politiche e nell’arte. Venerato da D’Annunzio e Adolfo de Bosis, aveva trovato in Emilio Cecchi il primo estimatore del calibro letterario della sua opera. Poi più nulla di risonante scuoterà il silenzio in cui lo si seppelliva, anticipando un destino che, se si eccettuano le traduzioni e pochi altri sparsi interventi, si ripeterà dopo gli anni Cinquanta. Bisognerà attendere, infatti, l’uscita nel 1995 della solida edizione delle Opere (Einaudi-Gallimard), curata con maestria ineccepibile da Francesco Rognoni, il quale adesso torna alla carica con un densissimo Meridiano Mondadori, Opere poetiche, in cui, con rinnovata e diversa energia, raccoglie nuovamente un’eredità abbandonata.