Di certi lavori d’arte pare averne tracciata la parabola una volta per tutte Charles Dickens. Chi ricorda lo stato miserevole nel quale Copperfield si presenta la prima volta alla burbera zia Betsey – i calzoni stinti e bruttati di polvere, la camiciola tutta un unico cencio e le gambe che fanno giacomo giacomo – ritroverà la condizione di molte opere nel momento in cui si presentano alla Fama. Da un certo punto in poi, invece, è tutto un volo felice e ci si ritrova, in un batter di ciglio, sposati con la buona Agnes. Questa fu, a un di presso, la sorte delle ceramiche del Chini. Non che egli ai tempi delle esposizioni universali, delle esibizioni internazionali e di altri consimili modernissimi incroci di vie carovaniere non avesse ricevuto riconoscimenti – le sue manifatture furono anzi insignite del Gran Prix d’Honneur all’Exposition Universelle del 1900 e poi di altri premi a Bruxelles (1901), San Pietroburgo (1901), Monaco di Baviera (1904), Saint Louis (1904), nel 1910, inoltre, Chini aveva avuto, com’è noto, una commissione per la decorazione del nuovo Palazzo del Trono a Bangkok –, ma da un certo momento in poi, complici le metamorfosi del gusto, le sue ceramiche avevano preso la strada dell’oblio fino a quando s’erano ritrovate in un’oscurità non meno profonda di quella dei magazzini di Blackfriars. Quando, secondo quel che racconta Vieri Chini, «un giovane studente di Amburgo, negli anni ’60, suonò il campanello per avere notizie sulla produzione ceramica antecedente», gli eredi trattarono quei pezzi al modo che il signor Dick suggerì di fare col piccolo Copperfield: innanzitutto li lavarono! Alcuni fra questi, infatti, «erano in terrazza utilizzati come vasi per i fiori». Nel 1968 esce lo studio di Rossana Bossaglia Il Liberty in Italia che si inserisce in un contesto di ritrovato interesse internazionale per l’arte dell’epoca; il libro di Portoghesi sull’art déco è del 1976; negli stessi anni si rivalutano Lucini e i simbolisti minori.
Che può dirsi oggi di Chini? Lo abbiamo visto molto spesso in queste ultime stagioni: a Palazzo Magnani, ai Musei di San Domenico, alla GNAM e, più recentemente, alla Fondazione Ragghianti dove se ne celebrava uno dei più felici imenei, quello con Giacomo Puccini. A fargli compagnia erano spesso Vittorio Zecchin, Duilio Cambellotti e altri artisti ormai pienamente risarciti del disamore dei tempi trascorsi. La mostra aperta fino al 28 aprile a Palazzo Pretorio di Pontedera, Orizzonti d’acqua Tra pittura e Arti decorative. Galileo Chini e altri protagonisti del primo Novecento, per la cura di Maurizia Bonatti Bacchini e Filippo Bacci di Capaci, è invece una personale che offre al visitatore la possibilità di osservare l’arte di Chini dai suoi germi ai suoi frutti tardivi, occidui.
La frenetica ballerina di Bonzagni
Non solo. L’opportuna collocazione di opere affini, per soggetto e per trattamento della materia, a quelle di Chini permettono illuminanti raffronti. Messa a fronte della ballerina di Bonzagni (Moti del ventre, 1912), di codesta tiade frenetica, la Danzatrice giavanese (1914) del Chini non tradisce forse la sua essenza quasi di idolo remoto, così calmo e assorto? E il tratto delle sue ceramiche, anche delle più semplici come le piastrelle con barche e motivi acquatici, non confessa, al cospetto di opere come la Fontanina dei boccali (1910) del più vigoroso e primitivo Cambellotti, un nonsoché di indulgente e voluttuoso? Mondo senza febbri, questo di Chini, intriso, ancor prima del suo fatale incontro col Siam, d’una placida, levantina indolenza. La si scorge certamente nei suoi quadri di soggetto orientale, concepiti al tempo del suo soggiorno a Bangkok, L’ora nostalgica sul Me Nam (1913), La notte nel Watt Pha Cheo (1912) e persino in una tela come La Bisca San-Pen (1912), che dovrebbe suggerire la smania e l’irrequietezza e mostra invece un’accolta di uomini assorti, morbidamente acquattata sotto l’oro dei lampioni.
Anche i suoi quadri di marine, di baie, di darsene carezzate dal sole sfuggente partecipano di un languore immobile, di una pesante e maestosa sonnolenza: Marina con tre bimbi sul bagnasciuga (1901), Quiete sul lago Moltrasio (1926), Mare di Sicilia (1928), Riflessi (1932) L’Arno tranquillo (1936). In un altro suo lavoro, La quiete (1901), è descritto un paesaggio senza vento di foglie appesantite dall’acqua, di stagni fermi, di mota e di umida erba. C’è poi un dittico, detto Voto di quelli che non ebbero tomba, nel quale un manto, ora d’acqua ora di neve, ricopre la muta distesa delle ombre: lo compongono Il voto ai dimenticati della terra e Il voto ai dimenticati del mare, finalmente riuniti assieme dopo la Biennale del 1920.
Ancora una volta i raffronti che la mostra propone si rivelano preziosi: le due tele dialogano con un grande quadro, Le due anfore (1910) di Plinio Nomellini, col quale spartiscono la tecnica, che è divisionistica, e l’impianto compositivo, largo e orizzontale, come di fregio. Eppure, quel che in Nomellini è sibilare di vento e agitarsi di spighe, in Chini s’è fatto quiete e silenzio. Anche l’acqua, che è il Leitmotiv dell’esposizione, ha in lui un carattere immobile, minerario. Nei suoi vasi con pesci, ideati fra il 1906 e il 1920 per le Fornaci di San Lorenzo, o nel suo Vaso ovale con navi, l’acqua, che per altri artisti è trasparenza, si fa come di caglio iridescente mentre i flutti del mare, esemplificati su modelli giapponesi, vi perdono quel loro carattere piumoso per farsi pesanti, cangianti come broccati. In questa materia densa di riflessi, quasi oleosa, sfilano pesci dalle lunghe tuniche di smeraldo, di topazio, di rubino che li fanno somigliare a superbi tetrarchi.
Il comune modello klimtiano
La sala dedicata all’influsso della Secessione mostra accanto a due tele di Chini, La vita e L’amore, entrambe del 1919, un arazzo di Zecchin, Bosco di Betulle (1920), ma le analogie non si spingono oltre il comune modello klimtiano, giacché, per quel che ho potuto vedere dell’opera dell’artista veneziano, la materia in lui tende sempre un po’ ad alleggerirsi e spiritualizzarsi, come se tutta la sua produzione, compresa quella tessile o pittorica, conservasse qualcosa della diafana consistenza del vetro; in Chini prevale invece l’amore per la soggiogante turgescenza del colore. La ripetizione dei motivi, spesso ricalcati su originali giapponesi, nouveaux o secessionisti, mette in risalto l’autentico genio di Chini per le ricerche timbriche, per gli impasti sgargianti, per gli amalgami raffinati di verdi, di azzurri, di rossi tenui e di cobalti. In alcuni vasi giunse a prediligere le colature astratte con esiti di innegabile suggestione. Se ne vedono alcuni esempi alla mostra, la maggior parte prodotta dalle Fornaci di San Lorenzo fra il 1909 e il 1920; ve ne sono, tuttavia, anche di precedenti che risalgono agli anni dell’Arte della Ceramica, la manifattura fondata nel 1896 con Montelatici, Vannuzzi e Vittorio Giunti in via Arnolfo a Firenze.
Come disegnatore la sua tecnica è stata ben descritta da Gilda Cefariello Grosso: «L’impianto ornamentale non è solo un abbellimento della sagoma ma esso viene impastato a seconda della conformazione della superficie: larghe corolle ad esempio vengono disegnate dove la sagoma si espande mentre si inseriscono sottili steli o fregi nastriformi dove questa si restringe»; ma, sfruttando in tal maniera la sagomatura dei suoi vasi, Chini, oltre a rendere più flessuoso ed elegante il disegno, aveva modo di esaltare gli smalti e i riflessi e, ancora una volta, la squisitezza dei suoi timbri. Giacché se Hokusai si firmava: folle di disegno, Chini avrebbe potuto contrassegnare le sue ceramiche: Galileo Chini, l’ebbro di colore.