Era d’inverno. Ad Arezzo, vicino a Porta San Lorentino, si lavorava alacremente per costruire un bastione nella cinta, parte del piano difensivo della città voluto da Cosimo I de’ Medici. Dalla terra bruna rimossa in gran quantità dagli uomini al servizio del Duca, apparve il bagliore spento, per il secolare seppellimento, di un bronzo dall’aspetto multiforme. Memorabile fu la sua visione inattesa ed è da immaginare che forte dovette essere l’emozione dei lavoratori appena sentirono il primo suono degli strumenti di scavo contro il metallo della pelle di un animale ferito, un animale mostruoso, dalla bellezza terribilmente ipnotica. «Si trattava di un leone di bronzo, di grandezza naturale, eseguito in modo elegante e ad arte, feroce nell’aspetto, minaccioso per la ferita che aveva nella zampa sinistra, che aveva le fauci aperte e i peli della giubba eretti e portava sul dorso, a guisa di trofeo, la testa di un capro sgozzato, morente e insanguinato. Nella zampa destra del leone erano iscritte le lettere TINSCVIL. Il nostro Principe comandò che quest’opera così eccellente fosse portata a Firenze» (Deliberazioni del Magistrato, dei Priori e del Consiglio Generale di Arezzo / 1551-1553). Queste parole, introdotte dalla data del rinvenimento (15 novembre 1553), dal luogo e dalle circostanze, fissarono per prime la scoperta di una scultura subito riconosciuta etrusca e fin dal Rinascimento considerata tra le immagini più rappresentative di quella civiltà: la Chimera di Arezzo.
Attorno a essa si creò presto grande fermento. Cosimo I la volle con sé a Firenze. Passò con lei giorni e notti nello Studiolo di Palazzo Ducale, nella sua blindata Wunderkammer dove l’accesso era precluso a tutti, moglie compresa, ma non a Benvenuto Cellini, che condivideva con il Duca la passione per il «lione di bronzo», da pulire con «cesellini da orefici» (così racconta l’artista), da restaurare e ricomporre perché tempo e terra avevano spezzato parti del corpo. Questo chiaro oggetto del desiderio ebbe il potere di incrinare la vita coniugale del Duca, di ispirare disegnatori e abili incisori e, soprattutto, di stimolare menti vive e coltissime come quelle di Giorgio Vasari e Pirro Ligorio.
Devastatrice e mortifera, domata da Bellerofonte sulle ali di Pegaso, cantata da Omero, Esiodo, Virgilio, dipinta su vasi (penso alla kylix laconica di VI sec. a.C. al J. Paul Getty Museum o all’epinetron attico di V, al Museo Archeologico Nazionale di Atene), incisa su specchi e scolpita in piccoli bronzi da artigiani etruschi, la Chimera ritrovata non poteva certo restare nascosta. Fu così spostata nel Quartiere di Leone X, il Papa figlio del Magnifico. Svettante in questo spazio del Palazzo pieno di significati, valorizzati anche dall’arte di Vasari, la Chimera si caricò di specifici sensi simbolici, ideologici, politici e propagandistici legati ai Medici: in particolare, si fece ponte ideale fra l’Etruria antica e quella che Cosimo I, Duca, Arciduca ma anche, e non a caso, Magnus Dux Etruriae, voleva restaurare, recuperando i territori che costituivano la regione un tempo etrusca. La Chimera riemersa dalla terra di Arezzo, città di illustri famiglie tirreniche come la gens Cilnia di Mecenate, sembrava un auspicio, un segno del destino per i Medici. Scrive Vasari in uno dei suoi Ragionamenti (il Terzo della Giornata Seconda), nell’intrigante dialogo con il figlio di Cosimo, Francesco: «siccome Bellorofonte domò quella montagna piena di serpenti e ammazzò i leoni, che fa il composto di questa chimera, così Leon decimo, con la sua liberalità, e virtù, vinse tutti gli uomini; la quale, mancando lui, ha voluto il fato, che si sia trovata nel tempo del Duca Cosimo, il quale è oggi domatore di tutte le chimere».
Tempo dopo, in un giorno di pieno inverno del 1718, un altro Cosimo (III) dispose un altro trasferimento per la Chimera, che raggiunse la Galleria degli Uffizi dove l’archeologo, storico dell’arte, filologo Luigi Lanzi la sistemò nel secondo corridoio rivolto verso l’Arno. Quello strano bronzo etrusco non lasciava indifferenti i visitatori, dai meno ai più edotti, come Johann Joachim Winckelmann che, cogliendo l’atipicità della statua, la definì «ein merkwürdiges Stück». Il Grand Tour della Chimera proseguì nell’Ottocento: nel 1870, anno chiave del Risorgimento, la scultura entrò nelle collezioni del Regio Museo Archeologico di Firenze, ricevendo il prestigioso numero 1 d’Inventario, e qualche anno dopo fu spostata nel Palazzo della Crocetta, oggi sede del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, dove è esposta al primo piano.
La Chimera, numero 1 del Museo anche simbolicamente e una delle sculture più rappresentative della civiltà etrusca nell’immaginario collettivo e nelle ricerche di settore, è stata cuore pulsante di Mostre (La Chimera e il suo mito, Firenze 1990; The Chimaera of Arezzo, 2009-2010), convegni (Myth, Allegory, Emblem: the Many Lives of the Chimaera of Arezzo, a Malibu nel 2009), riusi propagandistici e/o ideologici. È stata fonte di ispirazione per artisti – nel ventesimo e ventunesimo secolo: Arturo Martini, Mario Schifano, Dario Tironi, Patrick Alò –, scrittori e poeti come Jorge Luis Borges.
Vorrei qui ricordare due significativi riusi della Chimera. Il primo è legato a un documentario dell’Istituto LUCE girato nel 1940, visibile nell’Archivio: Civiltà etrusca. Il filmato racconta in 9 minuti questa civiltà, che fu usata e abusata a sostegno e beneficio della politica e propaganda culturale fascista, specie nazionalista e della ‘razza’ romano-italica. A metà del documentario, irrompe il tema del proverbiale ‘mistero’ degli Etruschi e del loro mondo «sotterra», introdotto dall’immagine di un canopo artatamente spezzato e accompagnato da una musica cupa e inquietante. Da un fondo nero evocativo del nero delle tombe e della morte, emerge, illuminata, la Chimera di Arezzo mentre una voce commenta: «simulacri di dèi, di animali, di Chimere interrogano attoniti la luce, ritrovano per un attimo atteggiamenti di vita, improvvisamente essi sembrano destarsi dal loro sonno più che millenario». In questo corto dell’anno XVIII-XIX dell’E.F., la Chimera fu usata come emblematica epifania del ‘mistero’ etrusco ma anche come opera-manifesto dell’arte etrusca, che seppe resistere all’«invadenza ellenica» e vincere. Ben altre epoche e occasioni hanno portato a scegliere ancora la Chimera quale icona simbolo. Nel 2017, nel primo G 7 della Cultura a Firenze, la Chimera ha viaggiato a ritroso nel tempo, tornando in quello spazio carico di storia, arte e memoria che l’aveva accolta poco dopo la scoperta, la Sala Leone X, assumendo nuovi significati che sono stati tracciati in una Mostra allestita per l’occasione, dal titolo eloquente: Chimera Relocated. Vincere il mostro.
Come per ogni opera, anche per la Chimera ciascuno di noi può fare un ‘uso’ intellettuale ed emozionale personale che non contrasta con il riconoscimento di certi ‘universali’. È impossibile non riconoscere quanto l’artigiano etrusco, consapevole di arte greca, lavorando al bronzo fra il V e il IV sec. a.C., abbia saputo fermare nel mostro triforme l’attimo di sospensione tra la reazione all’attacco e il fatale epilogo della sconfitta. Chi è davanti alla Chimera non può che farsi sedurre dalla tensione del suo corpo inarcato e proiettato in avanti, in equilibrio instabile fra sottomissione e tentativo di feroce contrattacco. Inevitabilmente indugia sulla tensione dei muscoli, sul rilievo netto di ossa e vene, sulle dense gocce di sangue raggrumate e immobili sul collo della capra fermato in una torsione dolorosa, sulla sinuosità della coda-serpente dal discusso restauro/integrazione settecentesco. Incontra gli occhi del leone, aperti su un muso incorniciato da una raggelante criniera, occhi che guardano verso l’alto accompagnando le fauci spalancate da cui, racconta il mito, fuoriuscivano fiamme di fuoco ardenti di devastazione. E può immaginare: la cromia perduta delle ramate gocce di sangue, i colori e il pregio dei materiali usati per denti e occhi, la pelle verdastra, coperta poi dal nero lorenese.
Innegabilmente unica, la Chimera di Arezzo pare non fosse sola ma con Bellerofonte su Pegaso e costituisse così un gruppo scultoreo. Non era certo sola nel 1553. Con lei emersero dei bronzetti e questo insieme prova l’esistenza di una stipe votiva legata a un santuario, dove la Chimera sarebbe stata esposta come dono a Tinia, lo Zeus degli Etruschi, il cui nome compare tra le lettere della già citata iscrizione dedicatoria, incisa sulla zampa destra.