Il 10 giugno 2020, all’età di ottantotto anni, muore a Abba, casa natale di una famiglia agiata della Nigeria sudorientale (ex-Biafra), il padre di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice «afropolitana» tra le più note, residente da anni negli Stati Uniti. Era «un uomo gentile e un gentiluomo», primogenito di una élite intellettuale minoritaria in Nigeria perché di etnia igbo e di religione cattolica, il primo professore di Statistica dell’era post indipendenza, che insegnò a lungo alla University of Nigeria di cui è stato anche prorettore.

Il lutto tramite Zoom
La sua morte, improvvisa e lontana dagli affetti e dalla cura di una parentela estesa ma sparpagliata nel mondo, viene comunicata alla scrittrice dal fratello Okey, unico figlio presente accanto al padre: ne leggiamo in Appunti sul dolore (traduzione di Susanna Basso, Frontiere Einaudi 2021, pp. 83, € 14,00), dove lo straniamento interno della autrice, la sua «rabbia orrenda, fremente» per non poter essere lì nel momento del congedo dall’amatissimo padre, si unisce alla frustrazione per l’impossibilità di raggiungere gli altri membri della famiglia se non con affrante chiamate su Zoom, e all’angoscia per il mancato rito funebre, a causa della pandemia globale.

Tradotto con rispettoso nitore da Susanna Basso, il lamento di Chimamanda Adichie riflette non solo lo strazio di una figlia privata dell’anziano padre che appena un giorno prima, via Zoom, le aveva rivolto il consueto augurio Ka chi fo, la buona notte, ma descrive in tutta la sua fisicità lo svuotamento di corpi fiaccati dal dolore e dal senso di impotenza, dando voce alla più ampia, collettiva e non appagata sofferenza del mondo di fronte ai lutti del presente pandemico. Di qui l’interesse di questo piccolo libro-testimonianza al di là dell’umana vicenda individuale.

Adichie ha alle spalle romanzi pluripremiati e di grande successo in Italia – L’ibisco viola, Metà di un sole giallo, Americanah – tutti pubblicati da Einaudi. Nei suoi Appunti sul dolore riprende non solo la forte vena autobiografica caratteristica della sua scrittura, ma nel delineare la figura del padre ricompone i tratti di tutta una generazione.

James Nwoye Adichie apparteneva alla stessa leva intellettuale dei pionieri della letteratura africana in lingua inglese come Chinua Achebe e Wole Soyinka, tutti cresciuti, come lui, in quella «certa educazione africana coloniale, cauta e precisa, amante del latino e delle regole»: si era formato all’University College of Ibadan, poi negli Stati Uniti, per un dottorato all’Università di Berkeley, ed era infine rientrato con la famiglia in Nigeria poco prima della lunga e devastante guerra del Biafra nella quale sarebbe stato inevitabilmente coinvolto e in cui – in un campo rifugiati – sarebbe morto il padre.

Il ricordo di un intellettuale che ha saputo mantenere l’integrità sua e della famiglia all’interno di un’epoca traumatica affiora nel testo più volte, ma di lui la figlia vuole custodire soprattutto l’agire quotidiano, la puntualità, la precisione, l’umorismo pungente. Il racconto di Adichie diventa così l’omaggio a un’intera generazione di intellettuali africani impegnati nello studio e nella ricerca alla fine degli anni Cinquanta, figli di un Occidente liberale che aveva marcato la fine della sua presenza coloniale fondando università africane affiliate all’Università di Londra (Ibadan, Legon, Makerere) e negli Stati Uniti dava vita agli Area Studies – accogliendo e formando studenti, studiosi, artisti, rifugiati e esuli africani e asiatici come oggi non accade più da nessuna parte.

«A formarmi è stato tutto quello che mio padre era»: è con questo riconoscimento colmo di affetto e di gratitudine che la figlia si congeda dal padre, e in qualche modo ritrova un proprio spazio di meditazione nei ricordi della casa natale, l’infanzia passata nel campus universitario di Nsukka, e nelle foto, nei biglietti e nei video che la riportano ai momenti comuni vissuti accanto al padre in Nigeria e nelle periodiche visite che lui e la moglie Grace le facevano negli Stati Uniti, ogni volta rammaricandosi di non aver registrato i suoi racconti ascoltati mille volte: «Lo facciamo la prossima volta, papà – gli dicevo e lui: Va bene. La prossima volta».

Prima dei rituali
Di qui la nuova consapevolezza «capillare e acutissima» della scrittrice per la propria stessa caducità e il bisogno «di scrivere tutto adesso» prima che i ricordi si attenuino e si disperdano nei rituali drammatici e performativi del lutto africano, le soffocanti condoglianze di amici e vicini, la necessità di rispettare usanze tradizionali come la clearance dai debiti di clan e di villaggio prima della sepoltura solenne, perché così in fondo avrebbe voluto il padre. Quel padre, ancora vivo e sorridente che la figlia ricorda e di cui riesce a scrivere oggi, ma solo «al passato».