«Non le importava dove avrebbero vissuto, quanto piuttosto che tipo di persone sarebbero stati»: non è facile prendersi cura della qualità della propria persona per i protagonisti di Chimamanda Ngozi Adichie. Era evidente già nei suoi romanzi Metà di un sole giallo (2006), sulla guerra del Biafra, e Americanah (2013), ambientato tra Nigeria, Stati Uniti e Gran Bretagna, che aveva collocato l’autrice tra i nomi di spicco dell’emergente letteratura Afropolitan. I numerosi premi ricevuti ne riconoscevano la limpida precisione della scrittura, oltre al talento per i dialoghi. Per chi aveva goduto di quegli affreschi di ampio respiro, veniva inevitabile domandarsi se e come queste qualità avrebbero resistito alle costrizioni della forma breve.

La raccolta di racconti Quella cosa intorno al collo ( Einaudi, traduzione altrettanto limpida di Andrea Sirotti, pp. 219, €19,00) uscita tra quei due romanzi, ne condivide molte caratteristiche. Nelle storie di ambientazione nigeriana i personaggi cercano di non farsi schiacciare da corruzione, scontri etnici, violenza politica e impunità poliziesca. Tra le pagine del racconto «Cella Uno» il giovane Nnamabia, rampollo di un docente universitario, segue la moda di darsi al crimine per gioco. Finito in una tipica prigione-incubo del Paese, ritrova la propria umanità difendendo un anziano umiliato dai poliziotti, e per questo finirà nella famigerata «Cella Uno» da dove molti escono morti.

La prospettiva di queste storie è però femminile, in un contesto dominato da soprusi e crimini sessuali. Lo sguardo di genere emerge nelle sue sfumature in «Un’esperienza privata», dove una studentessa universitaria e una venditrice ambulante, sfuggite a un massacro inter-religioso, si rifugiano in una stanzetta per due giorni, dando luogo a un confronto sommesso ma impietoso.

Nelle storie ambientate negli Stati Uniti, i ricchi nigeriani si ritrovano spesso anestetizzati da una «vita di plastica», «così ovattata di comodità da risultare sterile». I migranti non benestanti, invece, cancellano la propria identità per ottenere la sognata green card. «Il trucco era capire l’America, sapere che era tutto un dare per avere», si sente dire la protagonista del racconto eponimo dallo zio che la ospita, e che cerca poi di violentarla; rifattasi una vita, patologizza l’impossibilità di esprimersi come persona: «A volte, sentendoti invisibile, cercavi di passare nel corridoio attraverso la parete della tua stanza e, quando andavi a sbattere, ti rimanevano i lividi sulle braccia. (…) Di notte, qualcosa ti si avvolgeva intorno al collo, qualcosa che per poco non ti soffocava prima che ti addormentassi».

I grandi romanzi di Adichie sono intaccati dalla tendenza sociologica a spiegare tutto, lasciando poco all’immaginazione del lettore. Nella forma ridotta del racconto, invece, c’è fortunatamente spazio per il non detto e per le sue suggestioni. Sta al lettore riflettere sulla natura di «quella cosa intorno al collo», o su cosa ci sia nella Cella Uno. Temi che culminano in «Domani è troppo lontano», il racconto più riuscito e (non a caso) il più breve, dove un trauma infantile innominabile («il silenzio di una vita») lascia in sospeso le sue cicatrici.
Questi silenzi colmi di dignità femminile trovano risposte in un’altra opera di Adichie in uscita martedì per Einaudi, Cara Ijeawele Quindici consigli per crescere una bambina femminista (traduzione di Andrea Sirotti, pp. 91, € 15,00), un pamphlet in forma di lettera (sul modello delle Tre Ghinee di Virginia Woolf) che elargisce, con convincente semplicità, consigli di lampante buon senso dal retrogusto amaro, se si riflette su quanto poco vengono seguiti ancora oggi. «Perché sei una femmina non è mai una buona ragione»; insegnale a leggere e a mettere in discussione la lingua, «ricettacolo dei nostri pregiudizi»; insegnale «l’unica forma necessaria di umiltà: sapere che la differenza è normale».

L’entusiasmo dei 600.000 alla Women’s March del gennaio scorso trova qui un perfetto manuale di comportamento quotidiano utile per allentare quella cosa intorno al collo: il mondo è «pieno di donne incapaci di respirare a fondo perché costrette per tanto tempo a rinchiudersi nei modelli che le rendono gradevoli.»