Nel 1964 i Beatles, ossia le tre chitarre e voce John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e il batterista Ringo Starr, aprivano le loro esibizioni con She Loves You, uno dei loro successi più venduti, dalla melodia e comunicativa istantanea, e così accade anche in Eight days a week, il godibilissimo film documentario di Ron Howard che prende il titolo da una loro canzone, in uscita nelle sale dal 15 al 21 settembre, che si concentra sugli anni di concerti in giro per il mondo, the touring years il sottotitolo, per raccontare uno dei più travolgenti percorsi artistici nella storia della musica che ha influenzato la cultura, il divertimento e la vita delle giovani generazioni. Quest’avventura è stata già accennata (ad esempio in Rock’n’roll Revolution: the British invade America di Andrew Solt del 1995 e in What’s Happening! The Beatles in the USA, dei fratelli Maysles del 1964 ) tuttavia il materiale filmato inedito (con immagini amatoriali avute dai fan e migliorate con le nuove tecnologie), le interviste, le fotografie (concesse dalle famiglie dei Fab Four) e il montaggio «alle costole della band» riescono a rendere la fresca ventata di energia, ironia, anticonformismo, creatività costituita dalla crescita dei Beatles negli anni come individui e come gruppo, in una sorta di fratellanza, esplicitata inizialmente dallo stesso taglio di capelli, stessi vestiti, stesso tagliente umorismo e stessa capacità di essere ottimi musicisti e di lavorare assieme, con incursioni nelle conferenze stampa, nelle pause di lavoro e dietro le quinte.

Questo mini collettivo (e che colletti!) rock in un paio d’anni raggiunge una popolarità globale, accolto ovunque, dalle Filippine alla Danimarca, dalle prime esibizioni al Cavern Club di Liverpool fino all’ultimo concerto al Candlestick Park di San Francisco, da migliaia di ragazzi urlanti, contagiati dalla loro carica inesauribile e giocherellona. È il fenomeno della Beatlemania, che caratterizza l’ambiente dell’epoca, la prima parte della loro carriera (1962-1966). «I Beatles erano il sogno di come potevi essere con gli amici nella vita» dice il regista inglese Richard Curtis. In una scena, George racconta al telefono tutto eccitato che i Beatles sono primi nella classifica dei dischi più venduti. Fuori campo si sente John Lennon dire, «presuntuoso», per scherzare sulla vanità di George e sembra davvero di stare accanto a loro, per gran parte del tempo.

Così le interviste a Paul e Ringo che pesca nei suoi ricordi «ero figlio unico e, improvvisamente, mi sono ritrovato con tre fratelli. Quello che molte persone fanno fatica a capire è che eravamo quattro ragazzi che vivevano una vita alla Beatles, e questo si vede molto nel film, e praticamente stavamo assieme tutto il tempo. Gli spettatori vedranno che eravamo una rock band che amava fare quello che faceva» e quella a Larry Kane, il giornalista di 21 anni, che seguì, insieme con la band, tutto il tour americano, diventato poi famoso giornalista televisivo e amico del quartetto, l’unico che cita la marijuana come ausiliaria fonte d’ispirazione. Dall’irresistibile Twist and shout a una versione embrionale di Girl, una canzone dopo l’altra e un po’ di spazio anche per Brian Epstein e George Martin, i produttori che hanno indirizzato la fortunata carriera dei fab four, premiati dalla Regina con l’onorificenza Mbe.

Tra le rivelazioni del film emerge la posizione che il gruppo prese sul tema della segregazione razziale in occasione del tour nel Sud degli Stati uniti, nel 1964. Il rifiuto dei Beatles di suonare in qualsiasi luogo che prevedesse la segregazione obbligò il Gator Bowl a Jacksonville, in Florida, a cambiare la sua politica sui posti a sedere. McCartney dice che non si ricordava dell’incidente almeno fino a quando non ha visto il filmato contenuto nel film. «Non eravamo solo quattro musicisti tonti», osserva. «Eravamo dei ragazzi che guardavano il mondo con intelligenza, credo. L’idea che potessimo suonare davanti a un pubblico dove c’erano persone di colore da una parte e bianchi dall’altra era ridicola secondo noi. Non sopportavamo l’idea. Apprezzo molto quando il film fa vedere che lo mettemmo nel nostro contratto: ‘Non suoneremo in un luogo che prevede la segregazione». E naturalmente il caposaldo di tutti i concerti negli stadi, l’esibizione allo Shea Stadium, nel 1965, davanti a 56mila persone, dall’arrivo in elicottero alle canzoni suonate fino alla fuga finale (il filmato originale di 50 minuti a colori anche con i gruppi di spalla, è stato ridotto a mezzora e aggiunto come bonus alla fine del film).

Tutta la storia termina con un estratto del famoso concerto del 1969, l’ultima apparizione pubblica, quando i Beatles si esibirono per amici e colleghi in cima al tetto dell’edificio che ospitava il loro ufficio, l’Apple Records, al numero di 3 di Savile Row, nel centro di Londra. Le coinvolgenti performance live di Don’t Let Me Down e I’ve Got a Feeling sono state rimontate e l’audio rimasterizzato lasciando ancor di più il senso di quella pacifica, piccola e piacevole rivoluzione che viaggiava su un giro d’accordi, su parole efficaci, sul piacere di fare musica portando dappertutto, in Nuova Zelanda e sottocasa, una smagliante gioia di vivere e una voglia di credere in un mondo migliore.