A ben pensarci, Brian Wilson è la più improbabile delle rock star. Per decenni i Beach Boys sono stati o negletti o considerati troppo poco trasgressivi. Band pop per eccellenza, più «bianchi» persino dei Beatles, sembravano dovere essere e restare, nonostante il successo, una nota a piè di pagina della storia del rock in un momento storico in cui la pressione politica montava e i linguaggi musicali si ibridavano con il jazz, il folk, il soul, il funk e la musica latina. Difficile poi, se non addirittura impossibile, tentare di penetrare la coltre di psicosi depressiva alimentata da un consumo titanico di droghe che ha avvolto il seguito della storia. Brian Wilson, fra la fine di ’60 e i primi del decennio successivo, è stato la vittima più illustre di una generazione di musicisti che contava già lutti eccellenti come Jim, Jimi, Janis e Brian Jones. Ma non lo sapeva nessuno. A riaprire la pratica di Brian Wilson ci pensa Nick Kent, giornalista musicale inglese, che nel 1975 pubblica sul New Musical Express The Last Beach Movie, un lungo articolo di 30mila parole che di fatto ha dato il via al culto dei Beach Boys e alla rivalutazione critica di Brian Wilson.

 
Guidati con pugno di ferro dal patriarca Murry Wilson (Bill Camp), genitore dei fratelli Brian, Carl e Dennis, i Beach Boys hanno di fatto codificato la musica surf e inventato un vero e proprio genere del pop. Così, mentre i Doors galvanizzavano l’immaginario giovanile, un Brian Wilson sempre più frustrato con la formula che aveva permesso ai Beach Boys a partire dal 1962 di diventare uno dei gruppi statunitensi di maggiore successo, dopo il parziale fallimento economico di Pet Sounds – in assoluto uno dei più perfetti capolavori della musica rock di tutti i tempi – iniziava a progettare Smile, il disco che avrebbe dovuto consacrare lui e il suo gruppo.

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Il film di Bill Pohlad si apre proprio con un Brian Wilson, interpretato da Paul Dano e John Cusack, all’apogeo della sua creatività. La melodia ineffabile di God Only Knows danza nella testa di Brian e Pet Sounds, il disco che probabilmente ha fatto baluginare in Paul McCartney il sogno di Sgt. Pepper, gli cola letteralmente dalle dita. Pohlad, produttore che vanta al suo attivo film come The Tree of Life e 12 anni schiavo, riesce nell’impresa di staccarsi con determinazione dalle regole non scritte ma da tutti osservate del bio-pic musicale. Pohlad compie il tentativo di rievocare, attraverso un lavoro non banale sul suono, l’affastellarsi delle musiche nella testa di Brian Wilson. La macchina da presa si muove come portata da suoni, mentre il missaggio audio ci trasporta più dalle parti della musica contemporanea e concreta che dei Wondermints.

 

 
I momenti di felicità creativa di Wilson nello studio di registrazione, resi con notevole capacità di invenzione cinematografica, giocando con sensibilità fra il montaggio delle immagini e la scomposizione dei suoni, confermano ancora una volta l’idea che Wilson in realtà «suonasse» proprio lo studio di registrazione, alla stregua di innovatori del calibro di Phil Spector e Jack Nitzsche. Ritroviamo, anni dopo, il musicista distrutto dalle incomprensioni, dalla convinzione che i Beatles abbiano preso le sue idee portandole più avanti di quanto non abbia potuto fare lui, dai litigi con il padre e Mike Love (Jake Abel), ridotto all’ombra di se stesso incarnato da John Cusack e governato con perverso sadismo terapeutico dal dottor Eugene Landy (Paul Giamatti).

 

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Perverso incrocio chimico fra un Ron Hubbard e un Jim Jones, Giamatti interpreta Landy con convinzione agghiacciante. Elizabeth Banks, invece, è Melinda Ledbetter, la compagna che lo riporta a nuova vita. Impossibile condensare nelle due ore di Love & Mercy, scritto da Oren Overmann (Rampart, Time Out of Mind), tutta la vicenda di Brian Wilson e dei Beach Boys. Restano fuori, per esempio, la relazione di Dennis (Kenny Wormald) con Charles Manson e le frequentazioni di Brian con il circolo degli Hollywood Vampires (Alice Cooper, Iggy Pop, Harry Nilsson ecc.). Eppure non si può negare che Love & Mercy sia non solo un ottimo film biografico su un soggetto ostico ma anche un omaggio affettuoso, rispettoso e sincero.