Jean Cayrol è stato uno scrittore deportato per motivi politici nel campo di Mauthausen, non un deportato divenuto scrittore per impulso di testimonianza. Della permanenza nel Lager parlò sempre pochissimo, giudicandola esperienza «intrasmissibile, solitaria, instabile», inevitabilmente tradita da qualsiasi tentativo di restituzione narrativa. All’aborrito «pittoresco», più o meno involontario, di troppa memorialistica (o, peggio, fiction) sulla Shoah, Cayrol contrappone da un lato la nuda denotazione delle ricerche storiche, cui rinvia provocatoriamente («Per i dettagli si vedano i libri apparsi sulle deportazioni: lì sarà spiegato meglio, con maggiore dovizia di dettagli … i dettagli io non me li ricordo»); dall’altro una «scrittura concentrazionaria», capace di disfarsi di tutti gli automatismi dello stile letterario codificato, per registrare, sulla tabula rasa psichica, storica e linguistica del reduce, il processo di riadattamento ai gesti della vita sociale.

Nasce così l’Œuvre lazaréene, la trilogia che, nel nome di Lazzaro, dà conto di una resurrezione tutta immanente, e perciò lenta e traumatica, che dall’ineffabile dell’orrore assoluto conduce il personaggio protagonista – prima anonima e quasi spettrale voce narrante; più tardi oggettivato nel racconto in terza persona e individuato da un nome proprio, Armand – a una graduale appercezione e nominazione dell’esistente, catalogato con stupefatta ansia descrittiva; a una partecipazione per procura alle passioni altrui (Vivrò l’amore degli altri è il bellissimo titolo cumulativo dei primi due episodi della trilogia, del 1947); e, infine, a una felicità sentimentale implicitamente carica di valenze teologiche, nel libro conclusivo, La Feu qui prend (’50). È la scrittura, non il racconto (le vicende narrate si riducono al quasi nulla dell’esistere ramingo di un clochard dell’esistenza), a configurare una difficile conquista dell’identità, ancora disciolta nell’impersonale anonimato nel titolo dell’episodio inaugurale, On vous parle (alla lettera: Si parla a voi), ora per la prima volta in italiano per le cure impeccabili di Valeria Pompejano, nella veste sobria e evocativa dell’editore triestino Nonostante (pp. XXXV-176, euro 20,00), in evidente emulazione anche grafica delle parigine Éditions de Minuit.

Della traduzione, puntualissima e sempre elegante, può suscitare qualche perplessità solo la forzatura ottimistica del titolo, che diventa Lasciatelo parlare; della collana, «scritture bianche», è ammirevole il coraggio: all’insegna dell’écriture blanche, asceticamente spoglia di ogni orpello figurale e sdegnosa delle sirene dell’intreccio, teorizzata da Roland Barthes nel Grado zero della scrittura, ripropone al lettore italiano autori importanti quanto oggi per lo più impopolari: da Claude Simon a Marguerite Duras, da Robbe-Grillet appunto a Cayrol.

Non basta però registrare lo scarso appeal commerciale di una scrittura a dominante descrittiva, per giustificare quest’enormità: che un grande scrittore come Cayrol sia tradotto in Italia con settant’anni di ritardo. Più di ogni presunta difficoltà – in realtà, On vous parle è lettura scorrevolissima, e a modo suo appassionante –, conta la posizione storica, benissimo tratteggiata da Pompejano nella prefazione, di uno scrittore anche in Francia rimasto marginale, quasi sospeso fra esistenzialismo e nouveau roman, e naturalmente escluso dal canone di entrambi. Se in Camus l’umanità è «allo stesso tempo prigione e felicità», il pessimismo di Cayrol non può opporre all’«istinto di deterioramento», insito nella specie, altro che un accenno di teologia, perché «solo l’ineffabile è denso» (così Barthes, nell’ampio saggio sulla trilogia, opportunamente tradotto in calce al romanzo); se l’arte descrittiva dell’école du regard esibisce l’alienazione del soggetto senza nostalgie di pathos e identità, l’io di On vous parle è «volutamente senza passato, ma non senza sofferenza» (ancora Barthes), e nel mondo reificato che invade la pagina, «ogni oggetto», come scrive Pompejano, «porta inevitabilmente delle impronte digitali».

Restio all’impegno non meno che alla dissacrazione, poco versato nel proselitismo esistenzialista e alieno ai giochi combinatori della nuova avanguardia cui vanno ben presto le simpatie di un Barthes, l’autore della trilogia ha attraversato il secondo Novecento (è morto novantaquattrenne nel 2005) al tempo stesso al centro della scena culturale (è stato editore, talent scout, sceneggiatore per Louis Malle; e ha scritto ancora moltissimo) e a discreta distanza dal successo. Oggi, nell’orgia testimoniale di cui si nutre in misura crescente la civiltà dello spettacolo, dove l’esibita verità dell’esperienza è lasciapassare di ogni stereotipo narrativo, e il concetto stesso di non fiction novel sembra configurarsi come una negazione freudiana, Cayrol – che alla parola letteraria chiede molto meno, e molto più, di una semplice testimonianza: chiede una fenomenologia della resurrezione, un accesso all’esistenza, e un’ipotesi di salvezza – è scrittore abissalmente inattuale.