Le raccolte di racconti imperniate attorno a uno stesso luogo sprigionano un fascino innegabile, probabilmente legato al fattore «geografico». Nella storia del racconto americano del XX secolo se ne trovano buoni esempi: The Coast of Chicago, la seconda raccolta di Stuart Dybek che prefigura una componente geografica fin dal titolo, vi appartiene: strettamente intrecciate tra loro, sette storie lunghe si alternano a sette più brevi, vicinissime per tema e soprattutto per luogo. A trent’anni dalla prima, acclamata edizione americana, La costa di Chicago arriva in Italia nella buona versione di Silvia Lumaca (Mattioli 1885, pp. 168, € 16,00) abile soprattutto nel restituire il carattere eclettico dello stile di Dybek, che oscilla tra piglio realistico e diretto e uno sguardo quasi metafisico, trasformatore di immagini metropolitane in fantasticherie capaci di far emergere una dimensione mitica e sepolta della città.

Ciò che consente all’autore di muoversi con eleganza tra questi due poli è la sua prospettiva pittorica sulla composizione narrativa, che rimanda esplicitamente al lavoro di Edward Hopper, ma richiama anche una certa tradizione della street photography americana. Il primo racconto, intitolato a una strada del West Ridge, la «Farwell», ci introduce alla Chicago di Dybek attraverso un uomo che lentamente passeggia nella notte: un avviso per il lettore, cui viene concesso di abituare l’occhio alla luce fioca della città che sta per scoprire. In «Chopin d’inverno», una ragazza torna a casa in preda alla disperazione, incinta e umiliata, mentre il narratore ascolta attraverso i muri le sue sempre più affrante esecuzioni al piano di Chopin, fino a quando, una sera, le luci saltano, e il lettore si ritrova di nuovo in compagnia di un personaggio avvolto dal buio, in una sospensione che sprigiona malinconia e solitudine.

Altro motivo ricorrente, la presenza di personaggi molto giovani, tra i soggetti preferiti dell’autore, forse perché i più disposti a credere al ricorrente potere magico del buio. Non esauribili nel fascino descrittivo di atmosfere cupe e metafisiche, almeno alcuni fra i racconti offrono spunti leggeri, e talvolta affiora tra le righe, nitidamente, il contesto sociale della Chicago dei sobborghi. Tuttavia, a colpire di più, alla fin fine, è proprio una sorta di filo sospeso, uno sguardo verso l’immobile oscurità di tutto quanto in una città si fa fatica a comprendere, e dunque in fondo si teme: intrappolati proprio come in quella tela di Hopper dalla quale prende il titolo uno dei racconti, «Nighthawks».