Non lo definiscono jazz e, nonostante il peso dell’improvvisazione, nemmeno free jazz. No, la loro è Great Black Music, la grande musica nera, che nasce nel South Side di Chicago, il quartiere nero, ma trae la sua linfa e la sua vitalità dalle vene più profonde del continente africano. Il loro è un discorso musicale, politico, sociale, antropologico, come peraltro dimostrano le facce dipinte e i costumi di Joseph Jarman, Malachi Favors e Don Moye durante i concerti (Lester Bowie indossava, invece, un camice bianco da scienziato, Roscoe Mitchell abitualmente una giacca e una cravatta di lana). L’Art Ensemble of Chicago è uno dei gruppi jazz più longevi, molto probabilmente il più longevo, grazie ai princìpi della cooperazione e dell’autonomia dei suoi strumentisti, nonché alla solidità e coerenza del messaggio universale contenuto nella loro musica.
Fondato nel 1966, oggi il gruppo – dopo la morte di Bowie e Favors e due reunion – è ancora in piedi. La sua storia, o per meglio dire la sua «missione», è raccontata nel dettaglio da Paul Steinbeck in Grande Musica Nera Storia dell’Art Ensemble of Chicago (Quodlibet «Chorus», a cura di Claudio Sessa, traduzione di Giuseppe Lucchesini, pp. 399, euro 25,00), una biografia che incrocia inevitabilmente il dato sociale e i movimenti politici degli afroamericani degli anni sessanta e settanta, a partire dal Black Panther Party, al quale tuttavia l’Art Ensemble non aderirì mai, nonostante i sospetti dell’arcigna polizia francese, convinta che con i proventi dei concerti del loro biennio parigino, dal giugno 1969 all’aprile 1971, Bowie e compagni finanziassero le Pantere nere.
Sebbene lottasse per l’autodeterminazione e l’identità nera e la sua musica avesse un carattere «violento e rivoluzionario», l’Art Ensemble of Chicago non è stato un gruppo politicizzato, ma sperimentale, d’avanguardia, che non ha mai posto alcun vincolo alla musica e alla scelta degli strumenti (a partire dai «piccoli strumenti», come i fischietti, le trombette, le campane, il triangolo, le raganelle…). Un loro concerto è concepito come la più alta forma espressiva, nella quale convergono, oltre all’improvvisazione jazzistica, la poesia, il teatro, la performance. Quello della Grande Musica Nera è anche un discorso etico e di dignità: «Per quello che so della storia, nessuno riconosce mai al popolo nero – disse Favors nel ’79 in un’intervista a “Musician” – di aver fatto qualcosa. Nessun altro dirà mai che la tal cosa è Nera o Africana. Hanno tentato di portarci via anche il cosiddetto jazz, oppure hanno detto che l’ha creato un tizio, mentre in realtà sono stati i nostri antenati a crearlo». Precisò Lester Bowie: «L’uomo viene dall’Africa, anche gli scienziati devono ammetterlo. E lo stesso la musica, ecco perché è tanto potente». E ancora Jarman: «Rhythm and blues, rock and roll, spiritual, swing, dixie, reggae, bebop, funky: tutto ciò è a nostra disposizione dal momento che pratichiamo la Grande Musica Nera».
Dopo i due anni trascorsi in Francia, una meta ideale per i musicisti neri americani (vi erano già approdati altri musicisti «free» come Don Cherry, Sun Ra, Ornette Coleman, Steve Lacy, Albert Ayler e Cecil Taylor), gli Art Ensemble tornano negli Stati Uniti e stabiliscono un doppio binario: ogni componente suona nel gruppo, ma è libero di fare altre esperienze, anche teatrali, come fece Jarman. Il richiamo del gruppo di origine, tuttavia, è sempre molto forte: «Quando torno qui porto idee, nuovi brani, nuovi sentimenti», spiegò Bowie. Jarman, ad esempio, collabora con John Cage e registra un disco in duo con Anthony Braxton, Bowie fonda un gruppo di soli fiati e incide con Fela Kuti. Nel frattempo, i cinque – i cui dischi parigini per la piccola Byg Actuel erano stati distribuiti poco e male – passano con l’etichetta Atlantic (con cui producono Bap-Tizum e Fanfare for the Warriors) e poi con la prestigiosa Ecm (Nice guys, Full force, Third decade, Urban bushmen e, infine, Tribute to Lester), fino a fondare loro stessi la Aeco Records, che esordì con la registrazione dal vivo del concerto di Montreux, ospite il pianista Muhal Richard Abrams.
Paul Steinbeck è attento a tutte le registrazioni del gruppo (una cinquantina di dischi in totale, compreso Reunion, pubblicato dal manifesto nel 2003), fino a dedicare tre capitoli del libro a un’approfondita analisi, brano per brano, di tre lavori che considera tra i migliori: nell’ordine, A Jackson in your house, Live at Mandell hall e Live from the jazz showcase (di quest’ultimo esiste soltanto una videoregistrazione). «Contengono – scrive – alcune delle migliori composizioni e delle migliori improvvisazioni degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta… o di qualunque altra epoca». Il suo libro è talvolta ripetitivo, ma fornisce anche parecchi dettagli della vita privata dei cinque musicisti che possono interessare agli appassionati: ad esempio, Bowie, che aveva fatto parecchi soldi con la cantante Fontella Bass, la sua prima moglie, guidava una Bentley color verde smeraldo metallizzato; Jarman, dopo tre anni nell’esercito per aiutare nelle spese i genitori, rimase muto per un anno; negli anni sessanta e settanta Roscoe Mitchell giocava tutti i giorni a scacchi; quando attraversavano gli Stati Uniti sul bus che avevano acquistato direttamente dalla General Motors, portavano con sé fucili e carabine per proteggersi da «quei bianchi scatenati là fuori». È un bus che continua a viaggiare anche nell’èra Trump.