Dal serraglio delle più svariate produzioni, mistioni sonore, spesso strane, struggenti osmosi tra le arti, emergono a tratti, esotici, a volte esoterici, lunari congegni a propulsione composita, rifratta: bit di dati, drum machine, kraut, pop e avanguardia in una mescola viscosa che testimonia la vitalità della scena rock ed elettronica contemporanea anche, anzi soprattutto, al di là delle categorie. In questo ambito escono due ep molto belli reperibili su bandcamp: I can’t Breathe di Paolo Tarsi, già da tempo impegnato in spazi espositivi prestigiosi (da New York all’Inghilterra a Taiwan), con installazioni audio-video all’insegna di un’elettronica liscia, come la definirebbe Deleuze, oltre che nell’avant-pop; e Silence is even sexier di El Sob, reduce dall’esperienza sommersa dei Brad Pitt e poi delle Libellule fiammeggianti che da lì, dai sotterranei o nidi palustri erano emerse lisergiche, smerigliate e fendendo sciami di zanzare s’erano involate in un cielo grondante di contrappunti psichedelici.
I can’t Breathe è una disquisizione sul respiro occluso, soppresso nel contemporaneo tra covid e George Floyd, e si pone in continuità con il disco precedente, A perfet Cut in the Vacuum, che era una summa degli approcci elettronici di Tarsi dentro una partitura ai cui estremi ci sono il pop e la techno. Svettano, tra le altre cose, il basso di Percy Jones, ex dei Soft Machine, il sassofono di Bruno Spoerri, le percussioni elettroniche di EmilKr, che contribuiscono a stratificare gli arrangiamenti di chiaroscuri e a intessere l’anima trip-hop del disco, come in Twenty Bucks a Change che del resto non rinuncia al jazz e a qualcosa come un’eco funk. Ma a scandire il repertorio prismatico di Tarsi c’erano state già prima le lontananze, le venature elettroniche di Anitya Ma(sk) che sono lo sfondo efflorescente, aurorale del remix di EmilKr e diventano il motivo che muta il trip-hop nel sognante deep-house di I can’t Breathe rifatto da Violrex.

ECCO, C’È LA STESSA mistione di registri, ma ora nello spettro del rock, nel raggio d’azione di un rock spettrale, in Silence is even sexier di El Sob (il polistrumentista Daniele Dileo) che mette insieme Frank Zappa e i Primus, Capitan Beefheart e i Neu, i Battles, gli Zu e Atom Heart Mother ecc., in quello che si potrebbe definire un frammentismo musicale impugnato da un freak mentre suona un tamburo di latta. È lui, o un Ubu Roi, che spiccia parole in The end of freedom of speech, un aborto di canto sopra un kraut morente, il sortilegio del mito (a cui sembra alludere anche la copertina della disegnatrice brasiliana Priscilla Pinto) ridotto a nenia stanca, cigolante di flauto. È da lì che nasce il loop ossessivo, distorsivo di Insomnia: ferraglia, incaglio, ritrovati a brandelli poi nel finale di Silence is even sexier, che è decostruzione rock a colpi di concertina, e compendio perfetto (cioè monco) del freak-frammento di El Sob, di un ghigno che prima aveva percorso tutto The frong, scritto alla Claypool Lennon Delirium, ma ancora più sfatto. Fino al finale, Grey-brown lagoon, quasi contemplativo, incantato ma su un selciato di polvere, di sugne, che sfuma in attrito, in ruggine.