«In nessun tempo, per quanto oscuro, in nessuna condizione, per quanto desolata, l’uomo ha il diritto di non credere a ciò che è nell’uomo, al meglio, insomma; che il meglio può essere; e di non pensare ed agire in armonia con questa certezza. Può accadere che non riesca più a crederlo, come accade che l’individuo disperi di sé, ma bisogna saper riconoscere che ciò è debolezza e mancanza di vitalità». Sono parole di Nicola Chiaromonte (1905-1972), tratte dal libro postumo Il tarlo della coscienza (’92), che si configurano come un vademecum del suo itinerario esistenziale, contrassegnato da una forte valenza speculativa. Chiaromonte fu intellettuale eretico e rigoroso, scomodo e intransigente, sempre alla ricerca di una verità che potesse soddisfare il suo spirito inquieto, angosciato da mille dubbi. Non è un caso che la sua figura abbia avuto più notorietà all’estero, dove condivise gli anni dell’esilio con pensatori d’eccezione come Camus, Hanna Arendt, Malraux, assieme al quale combatté nella guerra di Spagna. Lo stesso Malraux, nel romanzo L’Éspoir, adombrerà il suo profilo in quello di Giovanni Scali, «giovane professore di storia dell’arte in esilio, raffinato conoscitore della pittura rinascimentale e appassionato lettore di Platone e, appunto come il nostro, bombardiere nella squadriglia aerea di Magnin, la cui posizione politica inclina progressivamente verso un sostanziale anticomunismo (al termine del romanzo viene descritto come “sempre più anarchizzante, sempre più soreliano, quasi anticomunista”)».
Allievo di Andrea Caffi
Questo passaggio è tratto da Nicola Chiaromonte Una biografia di Cesare Panizza, che viene a colmare una grave lacuna editoriale (Donzelli «Saggi. Storia e scienze sociali», pp. XIV-322, € 29,00). Si tratta di una sorta di biografia intellettuale che ripercorre la vicenda esistenziale di un pensatore impegnato a opporsi a ogni totalitarismo in favore della libertà individuale. Allievo di Andrea Caffi, compagno di liceo di Ettore Majorana, amico di Moravia, Alvaro, Carlo Levi, Paolo Milano, Chiaromonte collaborò a varie riviste tra cui «Il Mondo», «L’Italia letteraria», «Oggi», «Solaria», «L’Espresso», dove si interessava, oltre che di politica, anche di letteratura e cinema. Negli anni Trenta fu costretto, a causa del suo radicato antifascismo, a emigrare in Francia dove si avvicinò agli intellettuali che gravitavano intorno al movimento di Giustizia e Libertà. Ebbe così modo di misurarsi con il pensiero dei fratelli Rosselli, di Salvemini, Garosci, Lussu, Nitti, pubblicando vari contributi sulla rivista che faceva capo allo stesso movimento antifascista. D’altro canto Chiaromonte assisté nel 1935 a Parigi al celebre Congrès international des écrivains pour la défense de la culture che riunì l’intellighenzia dell’epoca al fine di trovare uno sbocco comune contro la barbarie hitleriana e le derive del fascismo. Facendo il resoconto di una di quelle sedute Chiaromonte scrisse che «quando una delegazione di intellettuali viene a schierarsi per la “dignità dell’uomo” e si comporta poi, di fronte ad un umile e semplice caso di equità e di lealtà quale quello di Victor Serge, sollevato al congresso da Gaetano Salvemini e ripreso da Magdeleine Paz, come si è comportata la delegazione sovietica, con tirate da osteria e tracotanza da sottufficiali, non rimane all’uditore che vergognarsi per loro».
In virtù della sua avversione sia al fascismo sia allo stalinismo, Chiaromonte, fautore di un socialismo libertario per certi aspetti affine a quello di Camus, fu osteggiato durante tutta la sua parabola esistenziale, diventando uno straniero in patria. In vita riuscì a licenziare, se si eccettua una raccolta di articoli intitolata Il tempo della malafede, edita nel 1953 dall’Associazione italiana per la libertà della cultura, due soli libri (e non un «unico libro», come si legge in una nota a p. 195, particolare che ancor più fa sentire la mancanza di una bibliografia in calce al volume): a Credere e non credere, edito da Bompiani nel 1971, bisogna infatti aggiungere La situazione drammatica, pubblicato dallo stesso editore nel ’60, contenente le riflessioni critiche sul teatro uscite sul «Mondo» di Pannunzio tra ’53 e ’57 in cui, tra l’altro, si recensiscono allestimenti da Beckett, Genet e De Ghelderode (in Scritti sul teatro, uscito postumo da Einaudi nel ’76, appuntò il suo interesse, oltre che sulla figura monolitica di Pirandello, su Artaud, Ionesco, il Living Theatre). Credere e non credere, uscito originariamente nel 1970 in inglese con il titolo The Paradox of History, rappresenta una sorta di testamento spirituale in cui, oltre a saggi di carattere letterario dedicati a Stendhal, Tolstoj, Malraux, Martin du Gard e Pasternak, è presente uno dei testi che maggiormente contrassegneranno il suo pensiero politico, emblematicamente intitolato Il tempo della malafede (con questo titolo è uscita nel 2013 una valida antologia di suoi scritti per le Edizioni dell’asino). Si legge in questo saggio che «in un mondo artefatto e organizzato secondo necessità meccaniche, ciò che si deve credere è già stabilito di forza: è ciò cui conviene adattarsi per motivi di utilità; e, avendo accettato l’utilità come criterio, si è anche accettato che la vita consista nella ricerca dell’utile e del possesso materiale e che la questione del vero e del falso non abbia altra importanza che “teorica”, vale a dire nulla».
Panizza ripercorre le vicissitudini di Chiaromonte facendo ricorso a un imponente apparato documentario che mette a dura prova, a causa dei continui rimandi in nota, la fruibilità dell’opera ma che, al tempo stesso, si configura come strumento indispensabile per affrontare una materia disorganica e ricca di ambiguità, considerata soprattutto l’inattendibilità di certe fonti quali, ad esempio, quelle relative agli anni del primo esilio parigino, in primis i rapporti segreti della Polizia Politica. Il biografo passa così in rassegna gli anni romani che precedono quelli dell’esilio, l’adesione agli ideali di Giustizia e Libertà e il successivo distacco, il coinvolgimento nella guerra di Spagna, la morte della moglie Annie Pohl, l’amicizia con Camus, l’approdo a New York, la collaborazione con la «Partisan Review» e la frequentazione degli ambienti radical, la conoscenza con quella che diverrà la sua seconda moglie Miriam Rosenthal (curatrice delle opere postume tra cui gli Scritti politici e civili nel 1976), il ritorno in Francia e poi in Italia.
Simone Weil in America
Fu d’altronde Chiaromonte, attraverso gli articoli pubblicati sulla rivista «politics» dell’amico Dwight Macdonald, a sdoganare negli Stati Uniti il pensiero di Simone Weil e la sua ricerca di una dimensione antropologica che facesse riferimento ai presupposti culturali dell’antica Grecia. Del pari bisognerà ricordare il rapporto con la scrittrice Mary McCarthy, con la quale intraprese diverse iniziative di carattere umanitario e che così lo ricordava: «Quando i veri valori erano in causa, non accettava compromessi. La libertà doveva essere libertà per tutti, la giustizia giustizia per tutti». Un capitolo a parte merita il sodalizio con Ignazio Silone che darà vita all’esperienza di «Tempo Presente», rivista che rivendicherà la propria autonomia di giudizio in un’epoca irretita dal dogmatismo ideologico e a cui collaborarono intellettuali del calibro di Herling, Quinzio, Sciascia, Arbasino e altri. Panizza ribadisce la totale ignoranza di Chiaromonte circa la «vera provenienza dei finanziamenti ricevuti da “Tempo Presente”» da parte della Cia.
Le istanze utopiche di Chiaromonte, la cui figura è stata spesso accostata a quella mitologica di Antigone, ancor oggi avallano una serie di interrogativi dai quali la politica non può più esulare, a cominciare dalla sua compromissione con la morale. Lo stesso autore osservava: «Si può sottostare al male minore ma non sceglierlo».