Nicola Chiaromonte venne colpito da infarto mortale il 18 gennaio del 1972, a sessantasette anni, mentre si trovava in un ascensore della sede Rai di viale Mazzini. Era nato nel 1905 a Rapolla, in provincia di Potenza. La sua vita, fin da giovanissimo, non trovò sbocco e approdo che nella passione per un instancabile e periglioso ragionare e interrogarsi quasi al modo di un filosofo antico, come di lui disse l’amico Paolo Milano, alla ricerca ostinata e mai normativa della Verità o, almeno, di un suo bagliore, di un lampo che trapanasse l’ovvietà o addirittura l’impostura spesso racchiusa nelle idées reçues. Una passione imperdonabile, come scrisse Pasolini in uno dei suoi epigrammi inclusi nella Religione del mio tempo del 1961 e intitolato proprio «A Chiaromonte»: «Non illuderti: la passione non ottiene mai perdono: / Non ti perdono neanch’io, che vivo di passione».
Da espatriato, da esule, da sradicato, ebbe per sola casa e per solo rifugio la pratica costante del pensiero in atto, come ad esempio per Paul Celan fu la lingua della poesia. In questo, e non solo in questo, si può dire che sia stato assolutamente moderno, legato a filo doppio con il mondo grande e terribile (i due aggettivi sono, com’è noto, di Antonio Gramsci) e inoltre con un secolo che, nel mentre non poteva che ripugnargli per l’effettivo e indiscutibile ragguaglio che la realtà rivelava in quanto a sanguinosa ferocia e a brutale violenza, finì tuttavia per diventare l’oggetto incandescente, pervasivo e privilegiato del suo indagare e insieme il vento forte che lo precipitava nel girone petroso, specie in patria, di un seppur relativo isolamento e innanzitutto della più aspra controversia col suo tempo che egli definiva, con una espressione che ebbe fortuna, come il «tempo della malafede».
Semmai, appunto, fu lo sguardo europeo e il cosmopolitismo a rendere meno gravosa la sua condizione: negli anni americani strinse rapporti non effimeri, tra gli altri, con Dwight Macdonald, con Hannah Arendt e con Mary McCarthy (proprio a lei si devono la postfazione all’edizione americana del 1986 dei saggi raccolti in The Paradox of History, libro uscito per la prima volta in Inghilterra nel ’70 e, a seguire e con aggiunte, apparso in italiano presso Bompiani l’anno successivo col titolo Credere e non credere, e l’introduzione al postumo Scritti sul teatro, Einaudi 1976) e collaborò con importanti contributi a riviste come la «Partisan Review» e «politics», entrambe espressione e voce della sinistra liberal; nel periodo francese, poi, l’intensa amicizia, nata durante una permanenza in Algeria, con Albert Camus, il rapporto con André Malraux (fu nella pattuglia aerea dello scrittore transalpino che andò a combattere Chiaromonte, in qualità di aviatore assai valoroso e audace, nella guerra civile spagnola) e la presenza di Andrea Caffi, che egli considerava il suo maestro; in Italia il sodalizio con Ignazio Silone, con il quale fondò e diresse dal 1956 al 1968 la rivista «Tempo presente». Ma poi, ancora, Salvemini, il sociologo Raymond Aron, Moravia, Flaiano, Gustaw Herling, Koestler, Orwell e così via. Una solitudine in fondo troppo rumorosa, potremmo dire alla maniera di Hrabal, se non fosse che di fatto Chiaromonte fu davvero disorganico a ogni ideologia e a qualsiasi appartenenza.
È certo che poco oltre l’adolescenza non smise, come il quasi coetaneo Brancati, di dormire con un occhio solo. Nel 1936 scrive, usando (gli capitava di rado) la prima persona: «A quindici anni ero fascista. Allora, e per un adolescente appartenente per nascita e per educazione alla classe media, era difficile, in Italia, non essere fascista. Da questa parte stava un poeta, D’Annunzio, dai gesti e dalle parole altisonanti, e un trascinatore di folle, Mussolini, che era anche un giornalista dalla penna veemente e sarcastica; dall’altra non c’erano che persone “serie”, e non si sentivano che prediche incitanti alla fredda ragione e al calcolo utilitario. Dunque io ero fascista e con i miei compagni andavo per le strade di Roma a gridare, a cantare, a ingiuriare il governo. Mio padre non ne era contento, il che rafforzava il mio furore lirico». Quell’adolescenziale furore lirico e quel dannunzianesimo di terz’ordine rappresentarono un vaccino per il futuro, un contravveléno che, in primo luogo, lo preservò da ogni afflato sentimentale, da ogni esacerbata accensione retorica e da ogni enfasi impertinente e petulante. È, come si diceva, il ragionare che gli interessa, per mezzo di uno stile mai compiaciuto e di un’andatura serrata, argomentativa.
Ora un tale dato che è anche morale, a cinque decenni dalla morte, è possibile verificarlo mediante il bellissimo «Meridiano» Mondadori che gli è stato dedicato, con fraterna e appassionata e meticolosa cura, da Raffaele Manica: Chiaromonte Lo spettatore critico. Politica, filosofia, letteratura (pp. CLVII-1825, euro 80,00) comprende, oltre alle due opere pubblicate in vita ovvero La situazione drammatica (Bompiani 1960) e il già ricordato Credere e non credere, quelle postume approntate dalla moglie Miriam, vale a dire Scritti politici e civili (Bompiani 1976), Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971 (il Mulino 1995), Silenzio e parole. Scritti filosofici e letterari (Rizzoli 1978) e Scritti sul teatro (Einaudi 1976). Restano ovviamente escluse le lettere, in specie quelle a Camus e a Caffi, mentre Manica si serve in abbondanza per stilare la preziosa cronologia di quelle, bellissime, indirizzate alla monaca benedettina Melanie von Nagel Mussayassul, dall’amico affettuosamente chiamata Muska.
Impressiona, in questo vasto paesaggio di scritture saggistiche e osservandone il procedere nel corso degli anni, la compattezza del discorso ovvero le costanti, i rimandi, i ritorni. Se Chiaromonte non fu un pensatore sistematico, come osserva Manica nel lungo saggio introduttivo, vero è che sentiva ben saldi i nuclei tematici attorno ai quali non smise mai di riflettere pur dentro il recinto assai vasto dei suoi interessi, dalla filosofia alla letteratura, dalla politica al teatro (pubblicava i suoi articoli sul «Mondo» di Mario Pannunzio, su «Sipario» e infine su «l’Espresso»), dal cinema alle arti figurative (notevolissime, ad esempio, restano le sue osservazioni su Veermer).
Si prenda Credere e non credere. Tutto il libro – vi sono inclusi saggi su Stendhal, Tolstoj, Martin du Gard (Les Thibault), Malraux e Pasternak – è dedicato al tema della Storia, alle sue aporie, ai paradossi che da essa si dipartono, alla «superstizione» che essa genera ossia al «rapporto tra l’uomo e l’evento, fra ciò che egli crede e ciò che gli accade», appunto Fabrizio del Dongo a Waterloo. Ma poi, leggendo altrove, in testi antecedenti, coevi o successivi oppure nei taccuini, ecco arrivare avanzamenti, chiarificazioni ulteriori: «La Storia dei fatti quali sono stati in realtà, cioè uno per uno e connessi su serie supposte razionali, non dice nulla. La storia vera è quella del significato che gli uomini hanno annesso ai “fatti”». «La Storia non ha senso» e piuttosto «ha senso l’esperienza», in altri termini «ciò che accade all’individuo e alla società nel momento che accade e poi nella loro memoria viva». Pare doveroso, ancora, segnalare le sorprendenti pagine su Pirandello, quelle su Moravia e su Svevo, su Mallarmé, su E. M. Forster e sul realismo nel romanzo.
Questo maestro di eresia, di disincanto, di «dissipazione» di sé (così il prefatore e curatore), questo difensore dell’«essenziale» contro l’«irrilevante», l’«egomania» e la fame di successo, questo «spettatore critico» dei naufragi e delle sconfitte che il secolo scorso e noi tutti abbiamo attraversato, non va trasformato e utilizzato e ridotto a una funzione, come un certo corrivo giornalismo culturale ha fatto e continua a fare. Significa immiserirlo, renderlo inerme, chiuderlo in una nicchia oramai archeologica. Il «Meridiano» che gli è stato dedicato, e che per il lettore nuovo sarà una scoperta e una rivelazione, dimostra senza alcun dubbio come Chiaromonte sia stato di più, molto di più, tante cose da utilizzare, da mettere in campo. In una nota, Raffaele Manica, ringraziandolo, porge al figlio Giovanni e alla sua giovane generazione il frutto di questo lavoro, nella speranza che «sapranno trarre dalle pagine qui raccolte qualche forma di esperienza, di dissenso, di ricerca inquieta e di libertà intellettuale». Non si saprebbe trovare un viatico migliore.