La natura non è un posto rilassante e gli animali conoscono fin dalla loro nascita lo stato di all’erta. Se vogliono assicurarsi una lunga vita, dovranno calcolare tutto, anche il minimo fruscìo, sia per procurarsi il cibo sia per non diventare loro stessi un buon piatto sulla «tavola» di altri. Nel libro La paura del leone (Rizzoli, pp. 228, euro 16) scritto da Davide Morosinotto e dalla sorella Chiara Morosinotto, biologa attualmente impegnata in Finlandia nello studio dei comportamenti predatori ed effetti dei cambiamenti climatici sugli allocchi). I due faranno incontri nelle scuole – lei in collegamento online – i giorni successivi alla fiera, mentre Davide sarà alla Children’s mercoledì 23).

Può spiegarci la stretta relazione tra paura e ecosistema?
La paura nel mondo animale è causata dalla presenza dei predatori nell’ambiente, che viene percepita dalle prede tramite vari segnali acustici, visivi e odorosi. Rispondono con varie risposte fisiologiche (sia di stress sia «di preparazione alla fuga») e comportamentali. Questo fa sì che le prede e i predatori, all’interno di un certo ecosistema, siano interconnessi e interagiscano l’un con l’altro perché le risposte comportamentali che ad esempio le prede utilizzeranno andranno a influire anche sul predatore (sul suo successo di caccia, sul cibo a sua disposizione e le risorse che avrà da investire in riproduzione). Non solo, ogni animale interagirà anche con altre specie che competono per le stesse risorse. Quando qualcosa fa modificare queste interazioni in modo prolungato (l’azione dell’uomo ma anche le variazioni naturali come un aumento improvviso di alcune «scorte» di cibo che portano a un boom di predatori o prede) gli effetti non sono circoscritti al singolo, ma colpiscono più specie che convivono nella stessa area.

La paura è un meccanismo di difesa «utile» . Ma può diventare una trappola…
La paura si è evoluta come meccanismo di difesa in quanto dà un vantaggio all’animale: ne può garantire la sopravvivenza. Allo stesso tempo però la risposta fisiologica che viene scatenata dalla paura, ha dei costi. Il cortisolo, in caso di stress elevati, è dannoso. I lati negativi della paura si hanno quando diventa cronica nel tempo; oppure quando un animale risponde a uno stimolo come se fosse un effettivo rischio ma non lo è: pensiamo a un animale domestico che si spaventi per i fuochi d’artificio, non c’è nessun rischio effettivo in casa, ma alcuni possono anche morire in queste situazioni.

I rivolgimenti climatici hanno prodotto cambiamenti nei «dispositivi naturali». Può descriverci quali?

I cambiamenti climatici modificano il comportamento degli animali. E così l’urbanizzazione con l’aumento di inquinamento luminoso e sonoro e la distruzione di habitat naturali. Consideriamo il surriscaldamento globale: gli animali possono spostarsi spazialmente, migrare o disperdere verso aree con un clima più simile a quello in cui si sono evoluti (cercare di spostarsi a maggiori altitudini dove fa ancora fresco), oppure cominciare a riprodursi prima. Tali mutamenti nella distribuzione spaziale e nella fenologia (temporale) delle specie va a influire su tutte le altre proprio perché le specie, in un ecosistema, sono connesse fra loro.
Se una preda modifica il momento riproduttivo in risposta al clima (come i bruchi di cui parlo nel libro) questo andrà a influire sui suoi predatori: se vogliono avere successo nella caccia e mangiare dovranno in qualche modo anticiparsi anche loro (la cinciallegra in risposta ai bruchi) o cambiare «cibo». Non solo, il clima può anche influire su prede e predatori direttamente. Ci sono mammiferi, come alcune lepri e mustelidi (predatori), che cambiano colore in inverno, diventando bianchi, mimetici con la neve. È vantaggioso per prede e predatori perché non essere visti aiuta sia la caccia che la fuga. Il riscaldamento globale però porta ad avere sempre meno neve in alcune aree del mondo e in queste zone le specie che facevano la muta d’inverno saranno ora svantaggiate in quanto estremamente visibili- bianche – sul terreno marrone fangoso