Non si possono amare le etichette, tanto meno se assegnate banalmente ad artisti ecletticamente rizomatici come Chiara Fumai (1978-2017), la cui retrospettiva Poems I Will Never Release, a cura di Milovan Farronato e Francesco Urbano Ragazzi e in collaborazione con Cristiana Perrella, si è aperta al Centro Pecci (fino al 3 ottobre).

A TRE ANNI dalla sua scomparsa, infatti, si tenta di ridefinire la sua opera omnia, smarcando l’artista dalla categoria di performer (semmai, come sostiene giustamente Farronato, era una artista performatica) e avvinghiandola a un universo segnico in cui, particolarmente la scrittura, ma anche il video, l’installazione, la fotografia, il collage, il disegno e il suono confluivano all’unisono.
La performance è un linguaggio che si morde la coda e la mostra di Simone Forti, sempre al Pecci, palesa quanto le sue diramazioni, metodologie e pratiche siano ramificate e incommensurabili. Nondimeno, anche la trita demarcazione di femminista rivela l’inadeguatezza cronologica e sociale che mal si incolla alla temperie postmoderna di Fumai.

ALIENA dai femminismi degli anni Sessanta, l’artista è «rapita» piuttosto da un post-femminismo post-ideologico che ha rovesciato la dominante rivendicativa in una propositiva. Chiara Fumai introduceva all’interno dei suoi lavori le smagliature discriminanti nei confronti delle donne: sono queste ad avere catapultato la sua ricerca al di là dei codici del politically correct così futilmente à la mode ai nostri giorni.
In più, ciò che contraddistingue il suo lavoro è quell’«oceano interiore» da cui profondevano istinti, pulsioni, ossessioni, interessi e proiezioni con amorosi o contestabilissimi personaggi epocali, che traghettavano le sue istanze estetiche. La grande mostra slitta tra i suoi sdoppiamenti in figure femminili controverse come la medium Eusapia Palladino, la terrorista Ulrike Marie Meinhof, l’attivista Valerie Solanas, la teosofista Madame Blavatsky, la scrittrice Carla Lonzi nonché su figure maschili come l’illusionista ed escapista Harry Houdini o il padre Nico Fumai, che le consentono di avvitarsi a universi sensibili e complessi. Così la video installazione Chiara Fumai legge Valerie Solanas (2012-2013) in cui nei panni di Solanas (divenuta celebre perché sparò a Andy Warhol nel 1968) legge i suoi scritti, tratti dal Manifesto Scum, evince quanto queste eroine avventate e scomode le servissero per rilevare il dominio maschilista all’interno del mondo dell’arte. E benché filigranato e ben truccato è egemonico ancora oggi.

L’INSTALLAZIONE La donna delinquente (2011-2013) ha qualcosa di surrealistico nella sua composizione. Su un tavolo con alcune sedie sospese per aria c’è la proiezione di un video. Questo, basato sul testo omonimo di Lombroso, che seguiva le sedute di Eusapia Palladino (una analfabeta pugliese nota per i suoi fittizi poteri medianici) interpola la misoginia positivista dell’epoca alla credenza popolare. There is Something You Should Know (20010-2011) è ispirata alla performance eseguita dal mitico Jack Smith e simula l’esistenza di un gruppo esoterico Sis che tenta di rievocarla attraverso procedure alternative.
This Last Line Cannot Be Translated (2017) è l’ultima opera realizzata da Fumai (presentata nel Padiglione italiano della 58/a Biennale di Venezia). Condensa la sua ricerca fatta di molta scrittura calligrafica (appunti, schemi, diari, schizzi) in una polimorfa trascrizione del suo pensiero. Un pensiero composito, macchinoso e relato al mondo, del quale, l’artista avvertiva il disagio e la meraviglia di poterlo penetrare con le sue opere.
L’accurata mostra è prodotta dal Centro Pecci e Centre d’Art Contemporain (Genève) in collaborazione con La Casa Encendida (Madrid), La Loge (Bruxelles) e The Church of Chiara Fumai.