Conobbi Chiara Briganti nel 1962: vivevo da poco in esilio a Milano dove il mio maestro, Roberto Longhi, e sua moglie Anna Banti, avevano costretto la casa editrice Feltrinelli ad assumermi come il loro redattore di libri d’arte (la rivoluzione nella mia remota isola mi aveva lasciato in miseria). All’inizio ebbi fortuna e feci pubblicare i tre volumi sulla scultura italiana di John Pope-Hennessy e l’ultimo volume dei diari di Bernard Berenson, Tramonto e Crepuscolo. Le mie due seguenti proposte, purtroppo, non ebbero la stessa sorte. Si trattava dello studio di Hugh Honour sulla Chinoiserie e di un lavoro, appunto, di Chiara Briganti di cui dirò subito.
Il redattore capo di Feltrinelli, Giampiero Brega, era un uomo intelligente e sottile, ma non privo di un certo moralismo di sinistra che a volte gli oscurava l’imparzialità intellettuale. Non volle pubblicare il libro di Honour perché gli pareva troppo raffinato, lezioso per una casa editrice di quelle vedute (non fu Brega, ma Bassani a scegliere Il Gattopardo) e lo stesso atteggiamento assunse sulle meravigliose collezioni raccolte nel Palazzo del Quirinale. Ambedue i volumi erano fortemente voluti da me con l’appoggio dell’altro gran redattore di Feltrinelli, Mario Spagnol, con cui condividevo l’amore per un certo tipo di quadri e per le arti decorative in genere. Il volume di Chiara venne poi intitolato Curioso itinerario delle collezioni ducali parmensi, un titolo anche questo non caro a Brega. A mio modo di vedere parliamo di uno dei primi volumi di questo genere pubblicato in Italia, ma che dovette aspettare qualche anno, sette per l’esattezza (non poco davvero), per vedere la luce.

Di sangue in parte francese, Chiara era la persona adatta per affrontare questa lunga ricerca. Le collezioni di Parma erano state portate o raccolte nella piccola capitale emiliana per una semplice coincidenza storica: una delle figlie di Luigi XV, Madame Elisabeth, era andata sposa al cugino, figlio di Filippo V di Spagna, l’Infante don Filippo. Pur non essendo titolari di un regno, erano entrambi figli di re borbonici e dunque da ambedue le famiglie, ma soprattutto dalla parte del re di Francia, ebbero alcuni dei mobili più belli del Settecento, anzi una collezione reale seconda a nessun’altra di quegli anni. L’Unità d’Italia segnò comunque la fine di questo paradiso che fu, con atto di pura prepotenza, trasferito senza ragione storica alcuna al Quirinale, trasformato da palazzo papale in reggia dei Savoia.
Andai a trovare Chiara, grande amica dei Longhi che la consideravano quasi una figlia essendo stata sposata a lungo con Giuliano Briganti, allievo prediletto del nostro Professore e figlio di Aldo Briganti, brillante conoscitore di quadri, bibliofilo e uomo di cultura classica, nonché antiquario talvolta consigliato da Longhi nelle sue scelte. Chiara era una donna decisamente fuori dal comune. Notevole studiosa, nessuno meglio di lei in quegli anni seppe arredare una casa e un palazzo. Fu lei ad essere chiamata dal Presidente Gronchi a occuparsi del Quirinale che odorava ancora troppo o troppo poco di vecchia monarchia. Facendo il suo compito da studiosa e nel contempo riarredando quella che ormai era sede della Presidenza della Repubblica, Chiara rimise ordine nel magnifico arredamento francese che, come avevamo accennato, era stato trasferito di forza e non sempre presentato né adeguatamente curato con particolare gusto, da Parma a Roma. Chiara assolse brillantemente non solo questo compito, ma scrisse anche un libro indimenticabile, reso con entusiasmo e con la grazia letteraria che aveva in parte imparato da suo marito, da Longhi e infine da Mario Praz che abitava nello stesso palazzo in Via Giulia in cui risiedevano i Briganti. Ci sarebbe da divertirsi, e non poco, a narrare di queste bizzarre vicinanze e ad ascoltarne l’eco, come capitò a me quando venni ad abitare a Roma e tutti quei personaggi erano ancora in piena attività. Era un altro mondo dove si sapeva senza troppa timidezza sorridere delle vicende personali degli amici con buonumore e, qua e là, qualche perfidia.
Ricordo bene la bella casa di Chiara in Via San Nicola da Tolentino, vicino a Piazza Barberini e a Via Veneto. Era giugno, una serata romana tiepida, ma non calda, in un giardino pieno di rose – me ne dette una che ha come tomba un vecchio libro che ancora riconosco. Nulla poté il mio entusiasmo né quello di Spagnol al salvataggio del suo volume e dovette aspettare un bel po’ prima che la Cassa di Risparmio di Parma lo pubblicasse con giusto fasto. Ebbe più successo in Francia che in Italia dove allora poco si capivano queste eleganze, ma i miei amici francesi che erano anche i suoi, primo fra tutti Pierre Verlet, del Louvre, il suo successore Daniel Alcouffe e il più giovane Pierre Arizzoli-Clementel (poi direttore di Versailles) la considerarono sempre sullo stesso livello del grande italianista Henri Bédarida dell’Académie Française, e autore del celebre Parme et la France (1928). Chi doveva capirla la capì subito, quelli che non vollero non la capirono mai. Parliamo di uno dei migliori libri di storia dell’arte (che di questo si tratta anche se non si parla di Michelangelo), pubblicati in Italia nel dopoguerra.
In quegli anni Chiara appena quarantenne era una donna bella ed elegante con un sorriso reso un po’ freddo dalle sottili labbra che ricordavano quello dell’Imperatrice Livia, moglie di Augusto.