Partiamo dai fatti. Mercoledì 9 ottobre il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan attacca il Rojava. Pochi giorni dopo in Italia iniziano a sparire da Facebook e Instagram post e pagine con contenuti pro-curdi. Per primi tocca a Michele Lapini, cancellata una sua foto di un corteo bolognese, e alla pagina del documentario Binxet, girato da Luigi D’Alife lungo il confine turco-siriano. Ma è da mercoledì 16 ottobre che l’oscuramento cresce di scala e si estende improvvisamente a tutte le principali testate di informazione legate ai movimenti sociali. GlobalProject, MilanoInMovimento e Contropiano sono cancellate e riattivate nelle 48 ore successive, in seguito ai ricorsi presentati dagli amministratori. Radio Onda D’Urto scompare. DinamoPress e Infoaut ricevono ripetute segnalazioni e l’avviso che stanno per essere oscurate, ma rimangono online. Da giovedì 17 ottobre la massiccia epurazione dilaga verso gli spazi sociali: Cantiere (Milano), Tpo e Làbas (Bologna), Askatasuna (Torino), Magazzino 47 (Brescia), Ex opg je so’ pazzo (Napoli). Cancellata per l’ennesima volta anche Rete Kurdistan Italia.

LE IMMAGINI INCRIMINATE sono sempre le stesse: il simbolo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e il volto del suo fondatore Abdullah Öcalan. La censura dei contenuti legati a questa organizzazione politica all’interno del social network di Mark Zuckerberg ha una storia lunga e ben conosciuta, almeno dagli addetti ai lavori. Nel febbraio 2012 Amine Derkaoui ex dipendente di oDeck, una delle aziende esterne incaricate del controllo della piattaforma, diffuse alcune linee guida di Facebook sui contenuti postati. Secondo quel documento le mappe del Kurdistan o i post di appoggio al Pkk erano proibiti. In teoria il divieto riguardava gli utenti turchi, ma questo aspetto rimase poco chiaro. Come poco chiaro è se e come la policy sia cambiata. Il 13 settembre di quest’anno Steve Sweeney, giornalista del quotidiano britannico Morning Star, si è visto cancellare il seguente post: «Abdullah Öcalan ha incontrato i suoi avvocati per la prima volta dal 2011». Secondo quanto riportato dalla testata, un portavoce di Facebook ha risposto così alla richiesta di chiarimenti: «Il Pkk è considerato un’organizzazione terroristica da Regno Unito e Usa. Come azienda americana aderiamo alle classificazioni statunitensi delle organizzazioni da considerare pericolose».

QUESTA DICHIARAZIONE da un lato chiarirebbe la portata globale delle linee guida sul partito curdo, dall’altro rende il tema ancora più complesso. Non solo sarebbe vietato dimostrare sostegno ma persino parlare, nominare, dare conto dell’organizzazione fondata da Öcalan. Le vicende delle pagine italiane solidali con i curdi sembrerebbero confermare entrambe le ipotesi. A novembre 2015 fu censurata prima una vignetta postata dal fumettista Zerocalcare in cui veniva denunciato il massacro di Cizre (Kurdistan turco) a opera dell’esercito di Erdogan. Poi toccò alla seguitissima pagina Rojava Calling, proprio mentre la Carovana internazionale per Kobane entrava a Cizre per denunciare gli effetti dell’assedio militare contro la popolazione civile. Ma torniamo ai fatti più recenti. Dall’analisi dei post segnalati e poi cancellati in base al punto due del primo paragrafo degli standard della community di Facebook, riferito alle «persone e organizzazioni pericolose», si nota come siano stati trattati allo stesso modo sia i contenuti di sostegno alla causa curda, sia quelli che semplicemente documentavano le mobilitazioni in cui erano presenti bandiere e simboli del Pkk e di Öcalan.

CHI È STATO COLPITO DALLA CENSURA ha utilizzato molta prudenza nell’ipotizzare le origini dell’operazione, facendo riferimento a due possibili dinamiche: un’azione intrapresa direttamente da Facebook, oppure segnalazioni massicce e organizzate da parte di account legati al regime turco. Nel primo caso si potrebbero rilevare delle affinità con l’oscuramento delle pagine neofasciste del 9 settembre scorso. Ci sono però due differenze decisive: nessuna di quelle pagine è stata ripristinata; in quell’occasione l’azienda ha spiegato e argomentato pubblicamente la sua scelta. Stavolta neanche una parola. Anche nel secondo caso qualcosa non torna. Perché la segnalazione sistematica delle pagine riguarda solo l’Italia? In molti altri paesi esistono realtà curde o solidali che postano contenuti simili. E poi: perché solo pagine legate al movimento? La maggior parte dei media italiani ha utilizzato immagini in cui erano presenti quelle bandiere. Che le aziende di controllo o gli algoritmi non siano ciechi è certo. In ogni caso, il target specifico e le modalità contraddittorie di questa operazione sollevano non pochi dubbi sulla sua origine.