Siamo segnati dalle nostre origini, da geni dissennati e imprevedibili, da tare ancestrali e da perplessità inculcate col biberon. Le somiglianze familiari sono qualcosa di inafferrabile: si può somigliare dalla prima infanzia al genitore dell’altro sesso e poi, improvvisamente, da un giorno all’altro, superata una certa età divenire identici al genitore del medesimo sesso: diventare la propria madre o il proprio padre a quarant’anni e non sapere che farci con questa nuova dimensione, come prenderla, se viverla come vorrebbero coloro che te lo fanno notare come un complimento, o restarne basiti e traumatizzati per qualche annetto come verrebbe naturale a ciascuno di noi.

Appena nati tutti a dire: è tale quale al bisnonno, ha staccato la testa al padre, alla sua età la nonna aveva quello stesso broncio e non lo smetteva mai, guarda le orecchie della mamma, i piedi, assurdi quei piedi col secondo dito più lungo dell’alluce, sputato suo papà che infatti porta quarantasette e non trova mai le scarpe… Tagliarsi i capelli a zero, radersi le sopracciglia o ogni pelo del corpo, tatuarsi senza permesso alcuni dei gesti individuali, spesso ritualizzati durante l’adolescenza, per riappropriarsi del proprio io indiviso.
Dna, clonazioni, gemelli siamesi, come si fa a staccarsi da un sosia che non sappiamo neppure esistere ma c’è? Si è identici come due gocce d’acqua, come due fiocchi di neve, come due particelle con la stessa formula chimica eppure no, nessuno è uguale a qualcun altro. Essere se stessi, unici e insostituibili, riconoscibili da pochissimi proprio in quanto noi e nessun altro questa la base su cui si basa l’individualità: mettere in dubbio questa unicità personale può minare certezze costruite in anni o ricevute via eredità caratteriale.

Quando dunque, dopo un lungo percorso di emancipazione emotiva-intellettuale-relazionale, un simpatico idiota che non si aveva smesso di frequentare da anni (e andava bene così), d’emblée, guardandoti dritto negli occhi, ti assegna una nuova casella nella vita – la «Sei Uguale A Tua Madre» – tu, che vorresti partirgli di capoccia, spezzargli ogni ossicino del naso già camuso, appenderlo a testa sotto con il sangue che va tutto al cervello e che magari lo farebbe pure migliorare dandosi una svegliata (dal dire ste bordate), invece, contro ogni tua volontà e per eccessiva buona educazione, non puoi far altro che sorridere ebete, fare un commento su quanto si porti bene i suoi anni (bugia a fin di bene pur di liberarsene al più presto), sgranare gli occhi dei suoi dichiarati successi e numerosi figli con altrettanto numerose donne e poi addurre una scusa per allontanarsi, rosi dal dubbio dal primo istante del maledetto incontro: davvero somiglio a mia madre?

Le risposte sono molteplici e inesauribili, declinano lo scibile umano andata e ritorno, non hanno valore né rilevanza a nessun fine. L’importante è sapere fare i conti con le somiglianze perché non sempre trattasi di qualcosa di somatico, più spesso sono gesti, movenze, attitudini espressive: modi di dire e di muoversi, tic e ossessioni più volte notate nel genitore e, a un tratto, senza averne la percezione, li abbiamo fatti nostri, dannatamente obbligati a portarci addosso il fardello familiare, volenti o nolenti, che sia denso di senso e cultura o che sia peso di miseria e mestizia. Chi si somiglia si piglia, diceva un detto. Più giusto sarebbe, prima o poi, alla fin fine ci si assomiglia tutti, sempre.

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