E così il governo Renzi non ha proprio pace. Ma soprattutto non ha pace l’economia italiana, che non c’è verso che si riprenda. Le ultime due “mazzate” vengono dall’Ocse e dall’agenzia di rating statunitense Standard&Poor’s, che vedono nero. In particolare, l’organizzazione internazionale (che ovviamente ha più peso): l’Ocse taglia violentemente le previsioni per il nostro Paese, portando il Pil di quest’anno a un -0,4%, rispetto al +0,5% pronosticato in precedenza.

Sarebbe una bella botta: l’Italia che continua insomma a restare in recessione, non uscendo dalla spirale della crisi, come invece si era previsto fino a prima dell’estate. A questo punto lo 0,8% scritto nel Def italiano – ma già sconfessato dal governo, che ultimamente stima una crescita intorno allo zero – appare del tutto lunare.

Allo stesso modo è pessimista – seppur meno – l’agenzia di rating, che vede un Pil italiano fermo a zero, contro un +0,5% previsto nel suo ultimo report.

E il 2015? Tornando alle stime Ocse, non si potranno certo stappare le bottiglie di champagne: se le precedenti previsioni davano un robusto +1,1%, adesso siamo a un timidissimo +0,1%. Ci metteremmo alle spalle la recessione, ma certo non si potrebbe dire che vedremmo la ormai mitica quanto fantomatica “ripresa”.

In pratica l’Italia sarà l’unico Paese del G7 a rimanere ancora in recessione, lontanissima anche dalle economie emergenti, Brasile compreso. E nonostante le rassicurazioni ormai quotidiane del governo sul rispetto dei parametri europei e del tetto del 3%, le nuove cifre lanciano comunque un’ombra sul deficit.

Se l’Italia dovesse effettivamente chiudere il 2014 con il segno meno, infatti, la situazione dei conti pubblici si complicherebbe. Secondo il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria, comunque, il premier Renzi sta tenendo sotto controllo i conti ma l’Italia, la cui ripresa sarà più lenta rispetto agli altri paesi Ue, dovrà accelerare il processo di riforme.

La revisione al ribasso è stata generalizzata. Tranne che per l’India, l’Ocse ha tagliato le stime di tutti i maggiori Paesi. Compresa Eurolandia, dove la crescita si dovrebbe fermare allo 0,8% quest’anno, contro l’1,2% calcolato nella primavera scorsa, per poi assestarsi all’1,1% l’anno prossimo.

Il giudizio è piuttosto severo anche per l’Europa. Il recupero dell’area euro, specifica l’Ocse, «rimane deludente», specialmente nei Paesi più grandi, anche quindi in Francia e nell’”intoccabile” Germania. Nel vecchio continente, la fiducia «si sta indebolendo», la domanda è «anemica» e su tutto grava lo spettro della deflazione, la stessa che ha schiacciato il Giappone per anni e che potrebbe ora appiattire anche l’Europa, rendendo vani gli sforzi di politica monetaria (vedi alla voce Bce).

Per l’Ocse «mentre la ripresa in alcune economie periferiche è incoraggiante, altri Paesi fronteggiano sfide strutturali e di bilancio, con il peso di un alto debito». La ricetta sta in un mix di flessibilità e riforme: «Vista la debolezza della domanda, la flessibilità all’interno delle regole europee dovrebbe essere utilizzata per sostenere la crescita», accelerando le riforme.

La minaccia del «Jobs Act»

In Italia, la riforma delle riforme è quella dell’articolo 18. L’Ncd è tornato alla carica per la cancellazione, non invisa a una parte dello stesso Pd. Ieri ad esempio Francesco Boccia si è espresso a favore di un suo «superamento», mutuando l’espressione usata dallo stesso Matteo Renzi. Superamento che fa tanto pensare alla formula Sacconi/Ichino: eliminare del tutto la reintegra, e risarcire il lavoratore licenziato con una somma crescente in proporzione all’anzianità.

«La reintegra non si tocca», ha ripetuto ieri Cesare Damiano, sostenuto da Vannino Chiti, che dice «no a una riduzione dei diritti».

Damiano spiega che «non siamo più all’articolo 18 del 1970, la tutela è stata riformata nel 2012 e non se ne sono ancora monitorati gli effetti. Renzi e il ministro Poletti indicano una riunione di maggioranza: non possiamo procedere divisi, al buio. Rischiamo un rimpallo del Jobs Act tra Camera e Senato, e così non centreremo la dead line di inizio novembre».