Un incontro molto produttivo», ma per accordi più precisi si rimanda alla prossima occasione. Così Zalmay Khalilzad, inviato degli Usa per il processo di pace in Afghanistan, al termine di un incontro di due giorni con alcuni pezzi da novanta dell’ufficio politico dei Talebani.

All’incontro, conclusosi ieri ad Abu Dhabi, negli Emirati arabi, hanno partecipato anche i rappresentanti del governo-ospite, oltre che di Pakistan e Arabia saudita. Alla finestra, gli emissari del presidente Ashraf Ghani, arrivati negli Emirati, ma esclusi dai colloqui. I Talebani non intendono incontrarli. A Ghani e al suo vice, Abdullah Abdullah, non rimane che attendere il resoconto che farà loro Khalilzad, a cui il presidente Trump pare abbia concesso sei mesi di tempo per portare a casa risultati concreti.

Per ora può rivendicare un successo simbolico: i barbuti hanno accettato di metterci la faccia. Non è da poco. Ma non basta per festeggiare. Rimangono tanti i problemi.

Il primo: chi deve parlare con chi e per ottenere cosa. Se per gli Usa il conflitto è tra Talebani e governo di Kabul, per Ghani il conflitto vero è tra Afghanistan e Pakistan, mentre per i Talebani è tra loro e gli americani invasori. Questione di punti di vista politici, da cui dipendono precise scelte diplomatiche.

Khalilzad assicura che lavora per promuovere un «dialogo intra-afghano», ma per ora i suoi successi equivalgono a picconate per Kabul. Ghani scalpita come mai prima. Ritiene che gli americani, oltre a marginalizzarlo, stiano capitalizzando il lavoro da lui iniziato. Prima con l’offerta di pace incondizionata proposta ai Talebani, poi con la tregua unilaterale di tre giorni della scorsa estate. Gli americani, a cui Ghani aveva debitamente chiesto il via libera sulla tregua e sulle aperture ai barbuti, gli hanno scippato l’iniziativa diplomatica.

I colloqui di Abu Dhabi rischiano dunque di aumentare la diffidenza tra Washington e Kabul. Oltre a una questione di metodo, c’è una questione di tempi e di realismo politico. Washington è impaziente. Il via libera di Trump al negoziato è a scadenza. Compito di Khalilzad è portare a casa un risultato concreto prima delle elezioni presidenziali afghane del 20 aprile. Pura utopia, oltre che un rischio enorme per la tenuta dell’eventuale accordo, pensano a Kabul, dove sanno quel che a Washington non vogliono sentirsi dire. Per fare la pace ci vuole tempo.

La fiducia reciproca va costruita passo dopo passo, con piccole concessioni reciproche, parziali ma concrete, non con una volata finale condizionata dall’imminenza delle elezioni. Non è un caso che il piano di pace presentato da Ghani alla fine di novembre a Ginevra, nel corso della conferenza internazionale sull’Afghanistan, preveda non pochi mesi ma «almeno cinque anni» di lavoro.

Il rischio, paventano a Kabul, è che gli americani concludano in fretta e furia un patto con i Talebani, che permetta loro di salvare la faccia ritirando i soldati (ma mantenendo il controllo di almeno un paio di basi militari?), lasciando il futuro governo di Kabul a gestirne le conseguenze e i nodi irrisolti. I Talebani capitalizzano le differenze tra Washington e Kabul, approfittandone per non chiarire le loro richieste, oltre a quella sul ritiro delle truppe straniere.

Per ora trattano il governo di Kabul come ospite indesiderato. Ma prima o poi dovranno farci i conti. Se lo faranno da una posizione di forza o meno dipenderà anche dall’esito delle presidenziali di aprile 2019. Un’elezione viziata da brogli rafforzerebbe la loro posizione, indebolendo ulteriormente quella del governo, già debole e delegittimato.