Anche se l’Economist afferma che «un rallentamento dell’economia globale sia improbabile anche se possibile», è pur vero come ormai appaia inevitabile che dobbiamo prepararci ad una nuova, brusca, recessione. Per quanto sembri incredibile, la diffusione di un virus che provoca una serie di malattie respiratorie, il cui tasso di mortalità si sta dimostrando più alto delle normali influenze, sta provocando una serie di effetti a catena sull’economia e il corpo sociale dell’intero pianeta. Per ragioni che non sono né tutte economiche o meramente sanitarie.

In primo luogo, il Covid-19, della categoria dei coronavirus, è un virus nuovo per il quale non esistono ancora cure sperimentate, né tantomeno vaccini. L’Organizzazione Mondiale della Sanità avverte che «è ora il momento di intervenire con misure di contenimento e di sostegno ai sistemi sanitari». La comunità scientifica internazionale appare concorde, nonostante Big Pharma, sul da farsi. Ma molti governi appaiono titubanti, soprattutto dove i sistemi sanitari nazionali erano stati depotenziati e privatizzati.

Gli effetti che più percepiamo tutti sono quelli che riguardano la vita giornaliera di ognuno di noi e delle nostre comunità. C’è chi ha parlato di “peste” ma è pur vero che come ogni malattia i cui contorni non sono chiari, la nozione che questa si diffonda per contatto e per vicinanza è divenuta il suo tratto fondamentale. Sarà pur anche una forma influenzale più aggressiva, come qualcuno la dipinge, ma i suoi effetti potrebbero essere potenzialmente molto distruttivi e i paragoni con la spagnola o l’asiatica alimentano una percezione apocalittica dell’evento.

E i governi di molti paesi, per limitarne la diffusione, non hanno potuto far altro che provvedere a limitare le occasioni di contatto e socializzazione, veicolo immediato di contagio (la risposta “medievale”, è stato detto).

Ma mettere una società in quarantena porterà ad un devastante effetto a catena. Perché affrontare il contagio per prevenirlo non è solo un problema che riguardi solo i sistemi sanitari e la loro capacità di affrontare l’epidemia, ma l’intero governo della società e dell’economia.

Oggi appare fin troppo facile lamentare lo smantellamento progressivo cui negli anni è stato sottoposto il nostro sistema di sanità pubblica, come quello di molti altri paesi, dove le esigenze di garantire una copertura universale e in grado di rispondere alle esigenze tutte della società – in emergenza come nella “normalità” – sono state spesso messe in secondo piano di fronte ai richiami efficientisti e economicisti, guardando più al bilancio che ai risultati.

Eppure, solo martedì scorso i governi del cosiddetto G7, Italia inclusa, si sono riuniti non riuscendo ad esprimere altro che “solidarietà”. Nessun passo concreto è stato fatto. Contenere il contagio non è sufficiente se non si guarda anche agli effetti di quel contenimento. Ed è qui che le risposte dei governi e degli organismi sovranazionali appaiono ancora balbettanti.

È fin troppo chiaro prevedere gli effetti immediati di quel contenimento e della paura che il virus sta generando: diminuzione drastica del turismo, cancellazioni di voli e viaggi, attività culturali e ricreative ridotte al minimo, scuole e università chiuse, il bilancio familiare di milioni di famiglie sottoposto a stress.

Le attività commerciali, le piccolissime imprese dedite a ristorazione e ad attività culturali, le librerie, le compagnie teatrali, non solo le grandi compagnie aeree ma hotel e tour operator, non solo gli organizzatori di grandi eventi – saloni dell’auto, fiere del libro – ma i milioni di addetti dell’indotto ne soffriranno. Milioni di lavoratori, migliaia di imprenditori, professionisti, operatori.

Si è già avvertito il riflesso pavloviano della risposta dei governi: il vincolo di bilancio. Se questo oggi non è solo uno shock come fu quello che diede inizio alla crisi del 2008 – che fu finanziario e poi reale – non è neppure come quello che originò la Grande Depressione del ’29. È questo un puro shock esogeno che mette in ginocchio settori dell’economia, che provocherà non solo calo delle vendite e dei profitti, ma chiusura di attività, calo del reddito, disoccupazione.

Certo, le armi a disposizione dei policy makers economici appaiono spuntate: cosa può un taglio del tasso d’interesse di fronte ad un calo dell’offerta dovuto ad un calo della domanda imposto e provocato dal contagio?

Ma è qui che l’esperienza ci fa preoccupare: non sarà che alla fine a pagare questa crisi verranno ad essere, di nuovo, i lavoratori precari, i “licenziabili”, le partite Iva, le donne, e più in generale i ceti meno abbienti? Invocare i vincoli di bilancio, pregare perché l’Ue ci conceda, bontà sua, maggiore “flessibilità”, non sarà alla fine che la dovremo pagare con nuovi tagli e nuova riduzione della spesa (sanitaria, per la ricerca, sociale), per accorgersi di nuovo di quanto sarebbe stato meglio investire in sanità, ricerca e infrastruttura sociale? Le premesse ci sono tutte, nonostante il governo “più di sinistra” (sic) della nostra storia repubblicana.