Molte cose si possono dire sugli 80 euro in busta-paga ai quali le forze di governo affidano le proprie sorti elettorali. Cose giuste e anche cose sbagliate. 80 euro in più al mese non sono – com’è stato detto – una disprezzabile elemosina per l’esercito di lavoratori poveri che non vede nemmeno da lontano un salario pur precario di 5 o 600 euro. Figuriamoci che cosa sarebbero e quali concretissimi problemi risolverebbero per chi ne mette insieme a stento la metà. Ma chi vanno questi soldi e quanti sono veramente?

Sembra che ne beneficeranno lavoratori dipendenti e “co.co.co.” con un reddito lordo annuo sino a 26mila euro. Ma non i pensionati. Non gli autonomi (i nababbi delle partite Iva). Non i cosiddetti incapienti (chi in un anno guadagna meno di 8mila euro). Non chi non ha sostegno al reddito. Come dire: aiutiamo i poveri sì, ma con moderazione. Chi esagera non merita che gli si dia una mano.

Quanto all’ammontare, qualcuno effettivamente vedrà gli 80 euro. Per tanti saranno invece molto meno perché il bonus è parametrato sullo stipendio e sul numero dei giorni lavorati. Com’è giusto. Un fannullone che non lavora tutto l’anno ma, poniamo, un giorno su tre, prenderà un terzo del bonus, 27 euro. Così impara. Per chi, come tanti insegnanti medi per esempio, o molti operai, guadagna 1400 euro al mese, il bonus sarà di 60 euro. In compenso, chi lavora da tempo ed è arrivato alla cifra iperbolica di 1800 euro, non solo non avrà niente ma anzi ci rimetterà qualcosa. Si chiama solidarietà. O forse guerra tra poveri. Sta di fatto che il bonus in media (quella del famoso pollo) sarà all’incirca di 50 euro. Anche se non è di moda dirlo. E c’è da scommettere che chi di dovere ha ben considerato che si voterà prima che arrivino le nuove buste-paga. Ma la questione è soprattutto politica. E morale. E culturale.

Se si danno questi soldi è perché c’è un problema. Anzi due. C’è la stagnazione, che va contrastata aumentando il reddito, esattamente il contrario di quanto sinora tutti i «governi del presidente» hanno fatto, con la scusa dell’Europa. E c’è la povertà diffusa e crescente. Che mette sotto accusa il sistema economico-sociale e che richiederebbe quindi risposte organiche, non misure estemporanee. Le quali sarebbero comunque benvenute – intendiamoci – qualora si inserissero in un quadro di interventi strutturali. Senonché di questi non vi è traccia. Anzi, sono evitati come il fumo negli occhi. Da questo punto di vista è vero, si tratta proprio di un’elemosina. Non è il riconoscimento di un diritto, ma una graziosa regalia. Un intervento compassionevole, come amava dire il presidente Bush. Degno dello Stato sociale del vecchio Bismarck. O, per stare alle proporzioni, del buon Tremonti della “Carta acquisti”.

Del resto, la logica è smaccatamente elettoralistica, berlusconiana più che democristiana. Bisogna che la gente impari la lezione: dobbiamo tutto proprio a Lui, al nuovo salvatore. Che, pur di «cambiare il paese», non esita a scontrarsi con istituzioni e sindacati, covi di parassiti e di conservatori. Lui, a sua volta, non fa mistero di considerarsi l’incarnazione del nuovo che avanza. Indomito, lotta contro tutti. Mentre la stampa gli suona la grancassa. Mentre la sua parte politica gli spolvera la giacca. E questo sarebbe il Partito democratico, l’erede legittimo dei Costituenti. I quali, se vedessero, si rivolterebbero nelle loro tombe.

Nondimeno si potrebbe dire: meglio un aiuto a pochi che a nessuno; meglio pochi spiccioli che niente; meglio il demagogo che redistribuisce del politico sobrio che lascia a bocca asciutta. Chi si lamenta «rosica». Mena il can per l’aia perché non vuole riconoscere che il governo ha invertito la tendenza al rigore e alla recessione, imboccando risolutamente la strada delle politiche espansive.

Ammettiamo che sia così: che demagogia e democrazia siano sorelle, che il cittadino vesta senza imbarazzo i panni del suddito cliente. Resta comunque il problema dei problemi, quello delle coperture. Intorno al quale non per caso è divampata più aspra la polemica con i critici del provvedimento. Quest’anno il bonus costerà tra i 5 e i 7 miliardi (circa 9 a regime). Da dove prenderà il governo questi soldi? Perché su una cosa non si può discutere: perché si tratti di una misura espansiva, bisogna che essa redistribuisca, e redistribuire significa prendere da una parte e dare a un’altra. Qui l’asino – senza allusioni – inciampa e casca rovinosamente.

Non occorre un master in economia per capire che, per come stanno le cose oggi in Italia, c’è un solo modo per risolvere il problema in chiave redistributiva: variare i saldi della fiscalità generale affondando il bisturi nella cancrena dell’evasione fiscale. Quindi, nell’immediato, colpire i grandi patrimoni, che ne sono indiscutibilmente frutto. In un’Europa oligarchica e iniqua l’Italia vanta, è noto, molti record. La corruzione, la mafia, l’analfabetismo di ritorno. L’immobilità sociale, i bassi salari, l’economia sommersa. La disoccupazione giovanile e femminile, la caduta degli investimenti pubblici in formazione e privati in ricerca. Ma l’evasione segna il record dei record, un crimine che imperversa da trent’anni e che si porta con sé la vergogna di un paese in cui il 10% delle famiglie possiede quasi la metà della ricchezza nazionale. Stando all’Agenzia delle entrate, siamo ormai oltre i 270 miliardi, un quinto del Pil. Quanti bonus potrebbe distribuire il governo se decidesse di pescare in questo mare? Se, così facendo, spezzasse finalmente la trentennale infrangibile continuità tra la destra, il centro e la sedicente sinistra di governo?

Invece no. Chi parla di patrimoniale è preso per pazzo: un barbaro che non capisce in che mondo stiamo. All’evasione si fa qualche riferimento, giusto per dire che è un problema serio, grave, difficile però da risolvere. D’altronde, come potrebbe il governo muoversi altrimenti, posto che Alfano e Berlusconi sono lì per proteggere i ricchi e che il Pd ne dipende? Ammesso che, potendo, cambierebbe le cose.

Ma questo significa, giocoforza, che anche stavolta il governo si servirà dei soliti strumenti. Le privatizzazioni (che, oltre a non essere misure strutturali, pongono le premesse per un’ulteriore crescita del debito pubblico). Nuove imposte dirette e indirette (che hanno il grande vantaggio di pesare su tutti in egual misura). E soprattutto altri tagli alla spesa pubblica: al welfare, ai trasferimenti agli enti locali e alle pubbliche amministrazioni, agli stipendi dei dipendenti pubblici, alle pensioni. Per cui, in buona sostanza, il bonus ai lavoratori dipendenti saranno i lavoratori dipendenti stessi a pagarlo, come nelle migliori partite di giro.

Di questo si tratta. Tutto il resto è chiacchiera. Che il presidente del Consiglio e i suoi corifei possono ammannirci pressoché indisturbati solo perché, invettive a parte, non c’è più in Italia un’opposizione politica in grado di farsi valere. Né una stampa di informazione indipendente, ma solo ormai un plumbeo sistema di propaganda. Proprio come quando c’era Lui, quello vero. Con l’aggravante che oggi nessuno rischierebbe olio di ricino né bastonate.

A proposito. Scriveva Salvatore Satta proprio settant’anni or sono che l’essenza del regime fascista consisteva in questo: «che i suoi pensamenti e le sue azioni erano costantemente e fatalmente determinati dalla necessità di legalizzare una situazione di rovina, della quale esso medesimo aveva posto le cause». Molto da allora è cambiato, non c’è dubbio. Ma non il fatto che «il gruppo di persone che si identificava con lo Stato innalzava sugli altari se stesso». E che al posto della legge imperversava «l’arbitrio della predoneria». Sembra il gioco dell’oca. Si fa un lungo giro per ritrovarsi daccapo al punto di partenza. Sarà per questo che suona attuale anche il titolo che il povero Satta diede a quel suo libricino: “De profundis”.