Del nuovo film di Michel Hazanavicius molto si è detto, scritto, in Francia lo hanno proposto tra i titoli papabili per la candidatura all’Oscar (scegliendo poi per fortuna 120 battiti al minuto di Robin Campillo) – forse confidando nel fatto che il regista a suo tempo era già stato stato oscarizzato con The Artist. E chissà se le discussioni cinefile infuocate sui social qui dove un film di Godard non arriva in sala da tempo immemore potranno interessare o catturare un pubblico nei mesi dell’autunno più malmesso per l’italico esercizio. Un punto questo su cui Hazanavicius invece insiste, la dicotomia cioè tra «film per il pubblico» e film che invece non lo pensano, vecchia, vecchissima eppure sempre lì pronta a essere impugnata.

 

 

Il mio Godard infatti non è un biopic, non è il racconto di un’esperienza artistica tra le più grandi del novecento e ancora oggi, ma si sofferma su momento preciso nella vita di JLG, il rapporto col Sessantotto e quel passaggio di netto cambiamento che il regista imprime al suo modo di lavorare . dai film con Belmondo (Fino all’ultimo respiro) a quelli realizzati dopo il Maggio francese insieme a Jean Pierre Gorin come Gruppo  Dziga Vertov definiti «incomprensibili».

 

 

La prospettiva circoscritta è dichiarata dal testo di partenza su cui Hazanavicius basa la sua scrittura, il romanzo di Anne Wiazemksy, Un an aprés , in cui la musa godardiana (La cinese) e sua giovanissima moglie racconta il loro breve matrimonio. È lei la voce narrante e dell’Uomo e del Regista rivela l’intimità fragile in cui i pensieri e la tensione verso altri terreni di confronto per il suo fare cinema – ossessione potente, politica, immaginifica – divengono un catalogo di luoghi comuni: una colazione in casa, mentre Godard antipaticissimo legge «Le Monde», isterismi da intellettuale egocentrico e prima donna, la gelosia possessiva e la poca considerazione per le donne.

 

 

Lei un po’ asseconda, un po’ consola, al suo logorroico narcisismo oppone un corpo deliziosamente nudo e attraente (è Stacy Martin). Un po’ sbuffa vuole fare l’attrice, andare a Cannes, al festival, anche se c’è la rivoluzione, si annoia con questo uomo musone, privo di umorismo. Gli studenti all’università lo contestano, in ogni manifestazione perde gli occhiali che finiscono sotto ai piedi della folla in corsa. I film devono piacere dice la nostra e fugge in Italia a lavorare insieme a Marco Ferreri (Il seme dell’uomo).

 

 

Criticare o «decostruire» (come lui faceva coi suoi anti-film) JLG è più che lecito – in Italia si fa fatica a pensare a un film analogo – e nessuno per carità pretende il santino né grida allo scandalo. Il punto è che Hazanavicius per farlo non si mette in gioco e tantomeno si sforza di trovare un punto di vista. Le Redoutable – questo il titolo originale del film, dal nome del sottomarino nucleare lanciamissili francese – è solo fastidiosamente reazionario e non per come liquida il ’68, e l’esperienza di quegli immaginari, ma per il modo in cui si pone verso il cinema in generale. Incapace di «uccidere il padre» (anche perché di filiazione non ve ne è) e senza alcuna motivazione Hazanavicius ne prende qualcosa qua e là, secondo lo schema del pastiche che gli è caro, per ridurre la portata teorica del suo personaggio (e più in genere una visione del cinema) a quel conflitto senza interesse tra arte e intrattenimento.

 

 

 

Una mancanza di visione ben espressa nel piccolo astio ombelicale con cui lo tratteggia: parrucca e zeppola che assume coraggiosamente per la parte Louis Garrel – da Bagaglino della peggior maniera che ammiccano, strizzano l’occhio compiacente, cercano di strappare la risatina con la gag più facile e grossolana. Perché anche la commedia è un’arte serissima, ma Hazanavicius non sembra saperlo confondendola con l’inutile gogliardia da social.