La cosa che meglio rappresenta il cinema horror, oltre ovviamente alle storie «da paura», è la musica che sale sempre più inquietante, come, tra gli esempi più classicie e noti, la Tubular Bells di Mike Oldfield per l’immortale cult L’esorcista. Di certo da una pellicola del terrore anche lo spettatore più smaliziato non si aspetterebbe un’opera di Broadway con ballerine, coreografie danzerecce e interi momenti dedicati alle canzoni. Eppure il cinema è un caleidoscopio di colori, di idee e invenzioni, a volte così inaspettato che arriva a varcare le soglie dell’incredibile, come nel caso dei musical horror, un pugno di titoli anarchici e gagliardi, vere mosche bianche che, pur non rinunciando ad incutere terrore al proprio pubblico, si lanciano in veri show che nulla hanno da invidiare a Cats o Grease, solo in versione più macabra ovviamente. Eccone alcuni esempi.
BIZZARRIE
Se si pensa a un horror musicale, fatto di balletti, costumi sgargianti e canzoni non può non venire in mente il The Rocky Horror Picture Show, datato 1975. Alla base c’è la produzione teatrale di due anni prima, il The Rocky Horror Show, appunto, con musica e testi di Richard O’Brien, un attore disoccupato che riversò tutta la sua passione per il cinema di serie B anni Sessanta, fantastico e horror, in un musical tra i più bizzarri (ed esaltanti) mai concepiti. Non importa molto della storia, classicissima come un film del terrore della Hammer con Christopher Lee e Peter Cushing, a farla da padrone è una messa in scena sovversiva e ribelle, qualcosa di talmente moderno da essere «oltre» anche oggi, nel 2019, a 44 anni dalla sua uscita nei cinema. Quello che rende unico, nella storia del cinema, il The Rocky Horror Picture Show è un mix travolgente di sesso e rock’n’roll, di personaggi eccentrici, di pezzi musicali che, anche se tu spettatore sei composto sulla sedia, non puoi fare a meno di canticchiare e, perché no, metterti a ballare, scatenato come (e con) gli attori dello schermo. D’altronde questo è il successo della sua pellicola: la sua natura ibrida e teatrale che fallisce in una visione classica e passiva ma che acquista, non solo senso ma potere, nel suo interagire nel reale con i suoi spettatori.
A tutti gli effetti il The Rocky Horror Picture Show è uno spettacolo da mezzanotte, proiettato nei cinema in nottate «vampires» che con il cartello del sold out, lontano non solo dagli occhi di dio ma anche della critica togata, quella dei film di serie A o B quando, proprio in questa pellicola, tutti i generi sono fusi in un misto tra il sublime e lo scellerato, tra il kitsch e il geniale. Come controparte teatrale infatti il pubblico segue le gesta dei personaggi travestendosi, cantando a squarciagola le canzoni e trasformando la sala in una vera festa. Personaggio iconico è senza dubbio il Dottor Frank-N-Furter, interpretato magistralmente da Tim Curry, attore originale anche del musical teatrale. Sono necessarie ben tre canzoni prima che questi faccia capolino nella pellicola, ma il suo arrivo è di quelli che lasciano il segno: sulle note di Sweet Transvestite il nostro si presenta al pubblico generando stupore. Lo sguardo ammiccante, le movenze sensuali, l’atteggiamento spudorato e il suo look erotico transgender sono ancora incisi nella mente di tutti i fan: l’uomo alieno, il dottore pazzo, la libido sbandierata senza inibizioni in una nazione a stelle e strisce ancora ancorata all’ipocrisia dell’American Dream di villette a schiera e coppie castrate ma felici. Oltre a Curry vengono assurti a divi anche Susan Sarandon e la sua Janet, Barry Bostwick come suo promesso sposo, ma anche, e soprattutto, il cast di comprimari eccellenti come Richard O’Brien (l’autore dell’opera) nei panni del factotum Riff Raff, e Patricia Quinn in quelli della domestica Magenta.
SEQUEL
Dopo 6 anni da quel 1975, il regista Jim Sharman decide di tornare alle atmosfere del The Rocky Horror Picture Show girandone una specie di seguito, Shock Treatment, che, fin dalla frase di lancio, si presentava come qualcosa di altrettanto folle: «It’s not a sequel, it’s not a prequel… it’s an equal!».
A scrivere la sceneggiatura e le canzoni è ancora il geniale Richard O’Brien che si lancia in una storia che quasi nulla ha a che fare con il precedente. Shock Treatment si presenta come una critica, ancora più incattivita, verso gli States, antimilitarista e urlata, un po’ sulla falsariga di un altro grandissimo musical, Hair. Così ascoltiamo canzoni come Thank God I’m a Man nella quale la misoginia e il buonismo di un buon padre americano, razzista e ignorante, viene sublimato dalla spietata chiusa «Faggots are maggots/Thank god I’m a man» («I finocchi sono vermi/Grazie a dio sono un uomo»). Avanti almeno un ventennio nelle tematiche, meno immediate del predecessore, Shock Treatment parla di reality show e di una televisione castrante che inibisce la libido sessuale e indottrina alla depersonalizzazione il suo pubblico.
Come tutte le grandi opere però questo nuovo musical non ottiene lo stesso successo, forse per colpa di hit musicali più curate nei testi ma meno orecchiabili, e dal rifiuto degli interpreti principali (Tim Curry, Susan Sarandon e Barry Bostick) di tornare nei ruoli tanto amati dai fan. Non serve a niente una performance straordinaria di Jessica Harper, già vista sia nello straordinario Suspiria di Dario Argento che ne Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, né la presenza massiccia di bizzarrie e balletti travolgenti: Shock Treatment è un flop di pubblico e critica. Lo stesso Richard O’Brien col tempo smetterà di difenderlo, tanto da etichettarlo come «sciagurata immondizia».
ZOMBIE E FANTASMI
I musical horror hanno inizio negli anni Settanta, ma nei decenni passati non era inusuale trovare delle pellicole dalle tematiche spaventose che avessero interi pezzi musicali. Basti citare Morti di paura (Scared Stiff) del 1953 con il fortunato duo comico Jerry Lewis e Dean Martin alle prese con un fantasma, uno zombie e un misterioso assassino o, dell’anno precedente, Bela Lugosi Meets a Brooklyn Gorilla, dove due sosia appunto di Lewis e Martin, Sammy Petrillo e Duke Mitchell, devono fronteggiare uno scienziato pazzo con l’idea folle di trasformare gli esseri umani in scimmioni. In questo assurdo horror comico assistiamo persino alla spiazzante scena dove un gorilla canta l’atroce Deed I Do, cavallo di battaglia appunto del Dean Martin da discount, Duke Mitchell, una sequenza così oltre il buongusto da lasciare estraniati.
È nel 1974 però che il già citato Brian De Palma gira lo strepitoso Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise) che miscela azzardatamene Il fantasma dell’Opera, Il gobbo di Notre Dame, Il ritratto di Dorian Gray e Faust. Al lancio di frasi come «Ha venduto la sua anima per il rock’n’roll» e «È stato menomato, incastrato, picchiato, derubato e mutilato. Ma non lo possono tenere distante dalla donna che ama!», il film è un’opera musicale moderna e ardita, impreziosita da una regia virtuosistica e citazionista, piena di grandangoli, accelerazioni, una ricerca della recitazione sopra le righe e uno spirito horror non dissimile dai gotici di Terence Fisher e i thriller anni Sesssanta di Alfred Hitchcock. Proprio una parodia di Psycho è la scena, diventata cult, nella quale il Fantasma del palcoscenico usa uno sturalavandini, al posto del classico coltello di Norman Bates, per uccidere una sventurata vittima. L’autore dei brani, una colonna sonora talmente travolgente da meritarsi l’Oscar, è Paul Williams, che nel film interpreta con efficacia i panni del malvagio Swan. Tra i tanti brani bisogna citare Goodbye Eddie Goodbye, una riuscita parodia del rock’n’roll anni Cinquanta e dei suoi stereotipi, un pezzo all’apparenza spensierato che però affronta i difficili temi della morte e del suicidio. Questo contrasto tra melodia e inquietudine sarà una delle caratteristiche salienti dell’opera, un musical disprezzato e sbeffeggiato alla sua uscita.
Faust invece è il brano simbolo del film: lo canta in solitudine William Finley, l’attore principale, mentre racconta del suo patto col demonio. Il senso di inquietudine che trasmette questo brano è palpabile e l’organo Hammond che fa capolino verso il finale accresce questo senso di salvezza disillusa. Jessica Harper, con la sua voce particolare, tutta giocata sui toni bassi, interpreta invece Special to Me, un brano soft rock alla Carole King.
Nel maggio del 2013, in un’intervista al New York Times, Guy-Manuel de Homem-Christo, componente e co-fondatore del celebre duo elettronico dei Daft Punk, confessò senza mezzi termini che «Il fantasma del palcoscenico è il nostro film preferito, la vera origine di quello che siamo diventati artisticamente». Che per molti, ancora oggi, il musical del 1974 di Brian De Palma sia poco conosciuto non è affatto una sorpresa: la storia del cinema è piena zeppa di film considerati minori che con il tempo si scoprono precursori e seminali.
PIANTE CARNIVORE
Altro film sfortunato al botteghino ma dalla fama di grande cult è La piccola bottega degli orrori del 1986 di Frank Oz con Rick Moranis (Ghostbusters), nel quale un timido commesso di un negozio di fiori scopre che la pianta carnivora che ha appena acquistato è un mostro cannibale. Alla base di questo musical una piece teatrale di Alan Menken, ispirata a sua volta ad un horror low budget del 1960 di Roger Corman, maestro dei gotici tratti da Edgar Allan Poe. Nella pellicola di Oz gli strepitosi effetti speciali e i pezzi musicali, folli e coloratissimi, rendono quello che era un banale film del terrore un po’ sciocco, ancor di più della trasposizione teatrale, una straziante storia d’amore e gelosia, di morte e abbandono. Se la pianta carnivora Audrey è la vera star, simpatica anche nel suo essere mostruosa, la palma alla miglior attore spetta ad un inaspettato Steve Martin nei panni di un dentista sadico alle prese, nella sequenza più esilarante con un Bill Murray masochista, un momento assurdo e spassosissimo.
Se l’atmosfera richiama la sognante America degli anni Cinquanta di Fred Astaire e Ginger Rogers, la colonna sonora invece omaggia il rock e il rhythm’n’blues degli anni Ottanta. La strepitosa soundtrack interpretata da Rick Moranis, Ellen Greene e Steve Martin riesce nel difficile compito di mantenere intatta la scrittura di Menken impreziosendola con invenzioni nuove. Tra i brani cult ricordiamo Little Shop of Horrors che fa da prologo al film, la spettacolare Mean Green Mother from Outer Space (nominata come miglior canzone originale ai premi Oscar 1987) e Feed Me, il classico cantato da Audrey con l’irresistibile voce soul di Levi Stubbs.
CANNIBALI
Matt Stone e Trey Parker sono i creatori dell’irriverente serie a cartoni animati South Park, amata e premiata dai fan di tutto il mondo. Meno celebre però è la loro carriera registica al di fuori dell’animazione, contraddistinta da bizzarri lungometraggi tra i quali Orgazmo, una parodia che mischia il mondo del porno con quello ultrareligioso dei mormoni. Nulla però paragonabile a Cannibal the Musical, un horror pieno di momenti cantati e ballati, ma anche infarcito di effetti speciali splatter che nulla lasciano all’immaginazione dello spettatore. A distribuire l’opera è la Troma, una delle più famigerate case di produzione e distribuzione anni Ottanta, famosa per opere a metà tra il cattivo gusto e il sublime come nel caso de Il vendicatore tossico, un supereroe deforme armato di mocio per pavimenti, o dell’incredibile, Tromeo and Juliet ovverosia Shakespeare con scene lesbo e omicidi dettagliati.
Cannibal the Musical, girato a partire dalla primavera del 1993 e distribuito dal 1996, narra la storia di un cercatore d’oro, Alfred Packer, costretto al cannibalismo da una tormenta di neve che uccide i suoi compagni e lo lascia senza viveri . Nonostante il fatto tragga origine dalle cronache d’epoca (Packer fu il primo uomo processato per cannibalismo in America), il duo creativo trasforma la vicenda in un bizzarro e irriverente spettacolo musicale, pregno dello stesso umorismo che li porterà al successo, soltanto l’anno dopo, con South Park. In contrasto con la storia cupa e grandguignolesca, Cannibal the Musical presenta per la maggior parte canzoni allegre, tutte composte da Trey Parker, tra le quali spiccano Let’s Build a Snowman, When I was on Top of You, Hang the Bastard e Shpadoinkle (si pronuncia «shpah-doink-ul»). Quest’ultimo, il pezzo migliore, è una parodia della canzone Oh, What a Beautiful Morning del celebre musical di Broadway Oklahoma! Tra le canzoni scartate ci sarebbe dovuto essere un pezzo rap, ma il risultato non ha convinto pienamente i due autori.
Darren Lynn Bousman è un regista famoso per aver girato alcuni tra i più feroci seguiti di Saw l’enigmista, i capitoli 2, 3 e 4. Il suo pallino, come ha dichiarato spesso in diverse interviste, però è il musical e cita, come film della vita, soprattutto il depalmiano Il fantasma del palcoscenico. Come spesso accade però il suo Repo! The Genetic Opera del 2008 è stato un clamoroso fiasco al botteghino. Forse la colpa è stata della storia troppo bizzarra (un mondo in crisi dove per sopravvivere si impegnano gli organi vitali) o della presenza nel cast di Paris Hilton, non molto famosa per le doti canore o attoriali, ma, su un budget di quasi 9 milioni, non arrivò neppure a guadagnare un milione. Eppure, come nel caso di tante opere qui presentate, il film è diventato col tempo un gettonato spettacolo di mezzanotte con tantissimi fan pronti a rendere le sale cinematografiche un’esperienza interattiva. La colonna sonora originale del film è stata composta da Yoshiki Hayashi degli X Japan, Darren Smith e Terrance Zdunich con il supporto di musicisti provenienti dai gruppi dei Korn, Slipknot, Guns N’ Roses e Jane’s Addiction. Le canzoni sono per la maggior parte rock melodico con l’apporto significativo di strumenti classici come il violoncello suonato da Melora Creager dei Rasputina.
CARNEVALE METAL
Non pago dell’insuccesso di Repo!, Darren Lynn Bousman, con un budget più contenuto (500mila dollari), ha girato altri due musical, i primi due capitoli di una trilogia ancora non terminata, The Devil’s Carnival interpretati da Sean Patrick Flanery, Briana Evigan, Jessica Lowndes, Paul Sorvino, Emilie Autumn e Terrance Zdunich, gran parte presenti nel precedente lavoro. Un progetto ambizioso che cerca di attualizzare le favole di Esopo in un contesto da torture porn, sfarzosamente ricco anche senza soldi, con pezzi e numeri musicali ancora più folli, capace di passare dalla musica lirica all’heavy metal con armonia, è forse uno dei lavori horror più convincenti e dall’alto valore musicale.
Da citare poi, almeno per la bizzarria, sono senza dubbio il canadese Stage Fright del 2014 che riesce a musicare con convinzione un genere fin troppo serioso e minimale come lo slasher alla Venerdì 13 o il folle The Happiness of the Katakuris (Katakurike no kofuku) del 2001, diretto da Takashi Miike, nel quale il miscuglio di generi, dalla commedia grottesca al film d’animazione a passo uno, è davvero incredibile. L’anima anarchica (e terroristica) della pellicola non ci risparmia neppure una sequenza in cui viene evidenziato il testo cantato dagli attori, come se fosse un karaoke. In questo folle pastiche ultra-pop ascoltiamo attoniti canzoni folk orecchiabili, condite da coreografie che sembrano improvvisate al momento, mentre gli attori volano grazie a dei cavi come in un film anni Settanta di spadaccini. Raccontarlo non rende l’idea.
Restano fuori, per la loro natura estremamente mainstream, due lavori eccellenti che portano il marchio di Tim Burton, il malinconico Nightmare Before Christmas di Henry Selick con la magnifica interpretazione nella versione italiana di Renato Zero, e il sanguinolento Sweeney Todd-Il diabolico barbiere di Fleet Street con un incredibile Johnny Depp e una diafana Helena Bonham Carter, perfetti anche come cantanti, con un netto approccio punk rock, debitore di Anthony Newley e Iggy Pop, per l’attore.
Certo è che il musical horror è un sottogenere tra i più incredibili, folli e scatenati, capace di terrorizzare, spaventare, inorridire, ma anche di catturare con le canzoni più scatenate. Quindi ora sapete che sotto il suo mantello, i canini selvaggi e la malvagità recondita, Dracula potrebbe nascondere un abito bianco alla Tony Manero!