Il 21 gennaio all’alba, nei pressi Tomsk, città della Siberia sudorientale non lontano da Novosibirsk, una baracca di legno prende fuoco. Undici dei quattordici operai che ci vivono dentro se ne accorgono troppo tardi che stanno bruciando vivi. In mattinata se ne rinverranno i resti carbonizzati: dieci di loro sono uzbeki, uno russo. La cronaca dei fatti delle agenzie giornalistiche della zona è asciutta: l’edificio non doveva essere adibito a luogo di residenza e una delle stufe utilizzate dai migranti era difettosa. La baracca si trovava nel territorio della segheria Green Wood in attività dal 2011 e di proprietà del cittadino cinese Sun Anni, di cui si sono perse le tracce.

Un caso, per le autorità, derubricabile a incuria dei migranti che vi soggiornavano o al massimo a omicidio colposo del titolare. Un caso come tanti se dietro non ci fosse una storia di penetrazione economica nella zona da parte di imprese cinesi senza scrupoli, di sfruttamento inumano dei migranti in una delle aree più inospitali del pianeta, di distruzione forzata delle foreste circostanti.

Tomsk, quasi mezzo milioni di abitanti, ha la stessa storia di altre città siberiane. Il crollo dell’Urss ha reso decotte molte delle sue fabbriche dagli anni ‘90 in poi. Chiuse la fabbrica per il raffinamento del petrolio e quella metallurgica già da molti anni. Un mese fa un altro pezzo della storia della città è stata smobilitata: la Sibirsky Karandashi Fabriki che produceva matite dal 1912, ha fatto bancarotta. «Negli ultimi anni le nuove aziende della zona – racconta un operaio sconsolato – lavorano tutte per il mercato cinese».

Per esempio nel settore agroalimentare: la regione di Tomsk vende quasi il 90% della sua produzione di pinoli, circa 6 mila tonnellate, in Cina. Nel 2019 informa il portale Tv2 «le aziende di Tomsk hanno venduto in Cina 1.177 tonnellate di pollame». Particolarmente apprezzata, la zampa di gallina che in Europa non si usa neppure per il brodo. Secondo il blogger di Tomsk Andrey Belous molte di queste aziende dell’agroalimentare sono joint-venture russo-cinesi costruite sapientemente proprio come le celebri scatole del dragone: una fitta e complessa trama di holding volta a coprire i veri proprietari dell’impresa. Che guarda caso appartengono a cinesi già impegnati nella zona nel settore del legno e a uomini legati ai grandi potentati politici locali del vice governatore Andrey Korr. Spiega Belous: «Il proprietario del complesso forestale Asinovo è la società cinese Avic Forestry, che a sua volta appartiene a 3 strutture della Rpc. Una partecipazione di controllo è detenuta dalla società forestale Hubei Fuhan (impresa statale), circa il 40% è detenuto da Avic International, una delle maggiori società commerciali cinesi specializzata nel settore dell’aviazione civile e della difesa (fa parte parte della State Aircraft Corporation of China), le restanti quote sono detenute dalla Yantai Economic Zone. L’Asinovo Forestry Park, di proprietà della cinese Avic, colosso dello sfruttamento delle risorse forestali, comprende oltre 20 persone giuridiche registrate nelle regioni di Tomsk e Kemerovo». Un caso da manuale di quella che un tempo si sarebbe chiamata “penetrazione imperialista” se il marxismo nel frattempo non fosse stato posto in soffitta un po’ troppo presto.

Già il legno, il vero grande business della zona che ci riporta come in un gioco dell’oca all’inizio, alle segherie e ai migranti che vi muoiono dentro. Il Moskvovsky Komsmol ha segnalato che «nello scorso anno la regione di Tomsk ha esportato 1,5 milioni di metri cubi di legname per un valore di 177 milioni di dollari». Destinazione Cina in primo luogo, e Uzbekistan. La manodopera utilizzata in queste aziende è prima di tutto uzbeka. Del resto non conviene portare qui quella cinese quando un operaio uzbeko costa 70 dollari al mese più alloggio. All’inizio di gennaio a Tomsk davanti all’ufficio migrazioni di Tomsk ci sono stati incidenti tra operai uzbeki e la polizia.

Quest’anno il numero di ingressi legali in Russia di forza-lavoro sono stati ridotti a 8 mila e tra gli aspiranti taglialegna nessuno aveva voglia di tornarsene a casa.

Ma il vero business del legno non è neppure il disboscamento ma quello degli incendi. Organizzato dalle imprese cinesi che hanno acquistato il diritto di sfruttamento delle foreste e gruppi più o meno criminali locali.

«Quest’estate in Siberia ci sono stati incendi in una zona di 3 milioni di ettari, l’equivalente quasi di tutta Israele» racconta un attivista ecologista della zona citando l’agenzia federale forestale. E la stragrande maggioranza erano incendi, secondo questo attivista, dolosi. «Vogliono distruggere i boschi di alberi poco pregiati per poi iniziare la riforestazione con quelli a più alto valore aggiunto» conclude l’attivista. A Tomsk dovrebbero essere operative entro il 2022, per gli accordi interstatali tra Cina e Russia, 10 aziende cinesi del settore ma ne sono operative solo alcune, e a rischio bancarotta. Sì perché il business degli incendi viene fatto senza mettere un yuan nell’economia della regione. Il gruppo di attivisti del partito di Navalny denunciano: «Abbiamo analizzato i rendiconti finanziari di Jsc Ruskitinveststva per il 2017. Tutte le società della holding hanno trend finanziari negativi, il totale delle loro perdite è di 2,3 miliardi di rubli. Un’altra società di questo tipo è anch’essa cinese: la Jingye. Con essa fu firmato un contratto di locazione per 49 anni di 137 mila ettari di foresta, un affare da mezzo miliardo di rubli. Ora i contratti di locazione sono stati risolti perché la società cinese non ha pagato l’affitto. Ma chi sarà impegnato nel ripristino di aree già abbattute? È una grande domanda».

Il “business incendi” è un affare a costo zero per i cinesi e gli affaristi locali e ha una ricaduta evidente sull’equilibrio idrogeologico che spira dalla taiga siberiana. Tomask, ormai da anni, è avvolta in una nuvola di smog osservabile anche a decine di chilometri di distanza.

La spirale che porta verso la distruzione dell’umanità puzza di mafia, zampe di gallina e sangue operaio.