Il periodo è tale che nella moda si susseguono gli argomenti di urgenza. La digitalizzazione della comunicazione e dei canali di vendita, l’allargamento globale dei mercati e un’incontrollata crescita quantitativa di prodotto costringono i grandi players del settore alla ricerca di quello che oggi va sotto il nome di «ricerca di autenticità». L’autenticità è un argomento che sta sostituendo il vecchio cavallo di battaglia del «rispetto del Dna» che un decennio fa si era reso necessario come conseguenza alla moltiplicazione dei direttori creativi dei marchi storici in cui i fondatori sono scomparsi per la naturale progressione del tempo. I tantissimi marchi fondati a partire dall’inizio del secolo scorso e fino al secondo dopoguerra, infatti, da più di un decennio sono disegnati e gestiti, a causa di forza maggiore, da designers che hanno culture e esperienze diversissime rispetto a quelli dei fondatori. È stato così che, agli inizi di questo secolo, il «Dna del marchio», cioè i valori e i riferimenti che i fondatori hanno impostato al loro tempo, è diventato un mantra che avrebbe dovuto salvaguardare lo stile che si riferisce al marchio. Ben presto, l’argomento si è dimostrato un’arma a doppio taglio, per cui spesso la rispondenza di valori originari si è dimostrata più un limite che uno strumento per affrontare la contemporaneità.

A questo punto entra in gioco la ricerca di autenticità, che è un percorso più arduo ma che lascia anche più liberi i direttori creativi di esprimere la propria creatività sul marchio che stanno disegnando. Il risultato è che alcuni designers hanno sviluppato la capacità di trasformare le proprie riflessioni e le proprie immaginazioni in quelli del marchio che stanno disegnando. Gli esempi più clamorosi sono quelli di Alessandro Michele e di Maria Grazia Chiuri che riescono a trasformare, rispettivamente in «autenticamente» Gucci e Dior, creazioni che nascono dalla loro esigenza espressiva riuscendo a ottenere un’ottima accoglienza commerciale nel mercato globale. Dove, però, l’attenzione è talmente alta che sono gli stessi consumatori, che il più delle volte coincidono con i più attivi presenzialisti dei social network, a vigilare sul prodotto.
Rispolverando un account nato nel 2008, Balenciaga did it first (Balenciaga l’ha fatto prima), è oggi molto attivo su Instagram un account che si chiama Who did it first e che raccoglie i post di molti atri account che fanno a gara per smascherare le copie che, in numero realmente sovrabbondante, si notano sulle passerelle e nelle vetrine da una stagione all’altra.

L’analisi è così decisamente impietosa: vengono messi a confronto abiti e accessori, con tanto di anno di presentazione in passerella, in cui la copia di un marchio famoso su un altro è evidente, anche se sempre con quella piccola variante che annulla il rischio del plagio. Ancora più impietoso, con la relativa evidenza del plagio, è invece il paragone fotografico dei prodotti dei marchi del lusso con quelli del fast-fashion, la moda a prezzi bassi che, con una velocità inusitata, riesce ad arrivare nei mercati prima ancora che arrivi l’originale.
Il problema della copia nella moda è molto vecchio. Nell’inconsapevolezza della clientela, nel secolo scorso tra i couturier volavano stracci e maldicenze e si rompevano amicizie decennali a causa di un bottone o di una fibbia vagamente simili. Oggi che è impossibile tenere i clienti all’oscuro, è il mercato stesso a pretendere l’originalità. Che non si costruisce con la sola autenticità.

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